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mercoledì 24 aprile 2013

Musica nel 2013: arte o business?

A causa del così detto “ponte” a cui andiamo incontro tra domani, 25 aprile (festa della liberazione) e il week  end, il freaky day sarà anticipato ad oggi: permettendo così a noi poveri autori del Freaky Times di giovare di un po’ di vacanze in più come ci piace tanto fare. A seguito di una lunga lotta sindacale con patron Martin “Stakanov” Morton abbiamo ottenuto le sospirate ferie e il permesso di saltare la pubblicazione di venerdì, oltre che quello di usare la redazione come sede del nostro party alcolico a patto di lavorare i prossimi Natale,Pasqua, capodanno e di rinunciare alle ferie per i prossimi 3 anni: ma quanto è umano direttore?

Nei primi del 900, a seguito del diffondersi sempre più egemonico della musica americana e inglese nel mondo, la produzione di dischi e la loro distribuzione è stata presa in carico da diverse organizzazioni sotto il nome di etichette discografiche. Inizialmente molto

[caption id="attachment_153" align="alignleft" width="150"]elio e le storie tese elio e le storie tese[/caption]

numerose, esse nel corso degli anni arrivarono a diminuire considerevolmente a causa delle fusioni avvenute fino a raggiungere un numero esiguo: la grande maggioranza del mercato musicale era controllato infatti da case denominate “Big Five” o “major”. Negli anni 30 e 40 le etichette erano diventate l’unico modo per un artista di farsi conoscere ed ascoltare dal grande pubblico e la loro espansione era arrivata a un punto tale da far accettare ai musicisti qualsiasi contratto fosse loro proposto: anche nei casi più svantaggiosi. A seguito di tale fenomeno cominciò a diffondersi nell’ambiente l’uso di assumere un avvocato che fosse in grado di esprimere un parere sugli accordi e soprattutto di tutelare da veri e propri raggiri. Negli anni 90 lo sviluppo di tecniche di registrazione a basso costo e studi di registrazione liberi a pagamento consentì agli artisti di realizzare da soli i propri dischi, mantenendo così una autonomia totale sulle scelte stilistiche e musicali, che sfociò nella costituzione di vere e proprie etichette discografiche indipendenti dalla minore visibilità. Non è raro storicamente che le major mettano il naso nelle decisioni dei musicisti limitandone le libertà di espressione seguendo i gusti del grande pubblico e da questo all’esplosione del fenomeno indipendente il passo è molto breve: artisti affermati appena il contratto con le big scade infatti spesso fondano etichette proprie. Questa appare essere l’esatto opposto di quanto accadeva negli anni 30 e 40.

images (1)Oggi con la recente creazione delle etichette online il monopolio delle major sembra definitivamente compromesso ma è realmente così? Nonostante queste apparenti rivoluzioni il mercato musicale è ancora controllato per il 71,7 % dalle major, che nel frattempo sono diventate “Big Three” dopo nuove fusioni, mentre la restante fetta di mercato è da attribuire a migliaia di case indipendenti che lottano per sopravvivere prive come sono di visibilità mediatica.

Il rapporto tra casa discografica e artista sembra essere per sua stessa natura sbilanciato a favore delle etichette: come può una band o un cantante raggiungere determinati livelli di popolarità, tali da poter vivere solo della propria arte senza di esse? Probabilmente la risposta è che non può. Generalmente si giustifica questo fatto considerando che solo i più dotati ce la fanno. Siamo portati a credere che solo nel momento in cui si è di fronte a talenti cristallini il mercato si accorga di loro ma i fatti ci insegnano che non è affatto così. Gli investimenti delle major sono finalizzati unicamente al guadagno e per raggiungerlo è necessario trovare artisti che possano piacere o altri da malleare affinchè piacciano. Chi non vuole rientrare in determinati schemi sembra destinato a una carriera breve e non molto fortunata ma pur sempre libera nel mercato indipendente. La prova più evidente di questo è che band come gli Oasis o gli Arctic Monkeys, per citarne alcune, si esibivano esattamente come oggi (o qualche anno fa per gli Oasis) prima dell’arrivo delle major e della fama. Liam Gallagher cantava “tonight I’m a rock’n roll star” davanti a 10 ubriaconi in un pub malfamato e fatiscente di Manchester nel 1991 come ha fatto poi dal 1994 di fronte a centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo quando una rock star lo è diventato davvero. La visibilità che danno le “big three” passando i video in tv e mandando di continuo i singoli per radio ottiene l’effetto di rendere il prodotto musicale (perche purtroppo di prodotti stiamo parlando) milioni di volte meglio rispetto a quello delle case indipendenti che di passaggi nei media nazionali non ne hanno. Una canzone di livello mediocre (tenendo sempre conto che può piacere a me ma non a qualcun altro essendo i gusti soggettivi) se ben pubblicizzata e magari se cantata da un cantante o una cantante di bell’aspetto può fare quello che, solo per fare un esempio, Mozart non ha mai potuto fare in vita: raggiungere il successo mondiale.

Ma dov’è finito il vecchio “art for art’s sake” di quel simpaticone di Oscar Wilde? Che fine ha fatto l’arte fine a se stessa? Si è vero che lui la intendeva come mancanza di messaggio morale nelle opere ma è un concetto sicuramente attuale rispetto alla musica mercificata. In altre parole si parla di arte nei casi in cui compaiono dei brani strutturati a tavolino, dei cantanti dal look sempre nuovo e sempre di nuova tendenza, a cui secondo molti le major li portano, per riscuotere il tanto agognato successo?

Probabilmente non esiste una risposta univoca alla questione: per quanti artisti emergenti disposti a qualsiasi compromesso artistico e morale al fine di avere fama e denaro ne abbiamo altrettanti di vecchia data disposti, come si diceva, a mettersi in proprio e a far prevalere il proprio buon nome, guadagnato in anni di buona musica, sui soldi che le major girano ai media per promuovere i dischi da loro prodotti. E’ il caso di Elio e le storie tese, per esempio, i quali producono da sé i propri lavori e avendo una fetta di pubblico affezionato ormai assodata non ha bisogno di pagare profumatamente radio e tv per essere diffuso: i media sanno benissimo che il pubblico guarderà i loro video e li considera un investimento sicuro. Artisti affermati come gli “elii” una volta fondata una etichetta indipendente spesso aiutano colleghi emergenti lasciando loro autonomia artistica e facendoli passare dai media creando dunque un circolo virtuoso da cui possono uscire successi commerciali ma comunque di buon livello musicale.

Beh se pensate ancora ci sia solo del marcio nella musica oggi e che ogni brano che sentite alla radio sia frutto di artisti venduti alle multinazionali forse vi tirerà su il caso degli Arctic Monkeys i quali la fama in Inghilterra la raggiunsero ben prima di firmare per una major e addirittura ben prima di pubblicare il loro primo album (di cui abbiamo parlato qualche settimana fa qui al Freaky Times). Regalando cd di pochi minuti registrati in proprio con le loro prime canzoni a chi li andava ad ascoltare ai loro concerti e masterizzandone quantità enormi, oltre che grazie al profilo myspace, le scimmie artiche divennero star della scena “indie” in pochissimo tempo. Quando finalmente si decisero a firmare per una major per questa non ci fu nemmeno bisogno di pubblicizzare il loro album o di farli giungere a compromessi: raggiunsero le 363.735 copie vendute solo nella prima settimana di uscita. Forse a volte la meritocrazia esiste ancora.

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