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lunedì 29 aprile 2013

Le strane coincidenze della vita (6/10)

Per il ritorno in rete di "The freaky times" e della rubrica cinema, si è pensato di continuare a recensire scanzonate commedie abbandonando però i favolosi '90 per andare a spolverare uno di quei tanti film umiliati dalla critica e per questo snobbato dai Blockbuster e dalle tv. "I Heart Huckabees - Le strane coincidenze della vita" è un pretenzioso ma spensierato film del 2004, ed il suo produttore, sceneggiatore e regista è David O. Russel, direttore scrupoloso giunto proprio l'anno scorso alla sua consacrazione da commediografo grazie al suo lavoro, trionfatore agli oscar 2013, "Silver Lininigs PlayBook - Il lato positivo", senza dimenticare quello che è ritenuto il suo capolavoro; "The Fighter". Regista ambizioso, giunto con questa del 2004 alla sua terza pellicola, il terzo semi-fallimento se guardiamo numeri e giudizi di pubblico e critica. Personaggio anche facinoroso David O. Russel, si racconta infatti che sul set, per probabili divergenze artistiche, sia arrivato a scazzottare con Geroge Clooney e, in I heart Huckabees, anche con Dustin Hoffman.

[caption id="attachment_161" align="alignleft" width="150"]Il facinoroso David O. Russel sta per prendere a sberle Hoffman sul set Il facinoroso David O. Russel sta per prendere a sberle Hoffman sul set[/caption]

Ma non ci interessano i suoi strani e sicuramente anticonvenzionali metodi di motivazione, comunque utili, anzi necessari, per guidare un cast di stelle di serie a che sono il vero motivo, forse l'unico, del fascino del film. Un film dedicato ai pochi (fortunatamente pochissimi) fan della filosofia, anche se la filosofia, l'etica, la spiritualità che nel film assumono ruoli fondamentali nella vita delle persone, non vengono mai studiate e approfondite, ci lanciano di continuo enunciazioni vaghe, generiche e spiegazioni tanto semplici quanto confusionarie, facendo si che la complicatezza della materia sia annullata, dando alla commedia solo un'illusoria impronta impegnata e intellettuale.
Albert Markovski (Jason Scwartzman) è il faro guida di una piccola associazione ambientalista, l'"Open Space", che in questo momento si sta ipegnando per salvare una foresta e una palude adiacenti dalla costruzione di un grande centro commerciale, l'Huckabees appunto. Albert si convince che la sua vita è monotona deprimente e incompleta, ha l'animo dell'artista (scrive poesie come mezzo di salvaguardia dell'ambiente) ma vuole fare chiarezza su quale sia la verità ultima che spiega il senso dell'esistenza di noi uomini. Quasi per caso trova il biglietto di una coppia di "detective esistenziali" e li raggiunge per farsi spiegare una presunta coincidenza, cioè il fatto di aver rivisto tre volte in tre zone diverse la stessa persona di colore. Ben presto i detective si rivelano essere molto espansivi, indelicati e praticamente fuori dal mondo con metodi singolari sia di investigazione che di cura esistenziale. Entrano appieno nella vita di Albert, stravolgendo le sue certezze, sgretolando i suoi valori, come dicono loro danno vita ad un doloroso processo di "destrutturazione", inevitabile per raggiungere la verità. Bernard (Dustin Hoffmann) e Vivian (Lily Tomlin) sono sostanzialmente dei funzionalisti secondo i quali ogni cosa è diversa ma collegata, esiste una prepetua relazione tra ciò che è accaduto e ciò che accade, relazione incessante e inevitabile. Destrutturare è la parola d'ordine per non affogare nelle pene che queste relazioni comportano; distaccarsi, allontanarsi, pensare a sè soltanto più che a tutto ciò che ci circonda. Albert conosce Tommy (Mark Wahlberg), altro paziente in fase di destrutturazione e suo "alter-ego", e insieme vivono questa fase perdendo praticamente tutto di quello che fino ad allora aveva permesso alla loro vita di essere se non proprio felice quantomeno sopportabile. Tommy perde le sue certezze etiche, la moglie e la figlia lo abbandonano mentre Albert perde la guida dell'associazione Open-Spaces, sua unica ragione di vita, a discapito di Brad (Jude Law), avvocato per la Huckabees, che, cercando di mediare tra il centro commerciale e l'associazione, con il suo carisma, il suo charme, il suo fascino e le sue idee efficaci (al posto di usare poesie ha organizzato un concerto di beneficenza con Shania Twain, cantante canadese) conquista tutto e tutti, diventando però arcinemico di Albert. locQuando anche lui, quasi per scherzo, si rivolge ai detective, la sua ascesa termina, e comincia il periodo in cui neppure lui riesce a convivere con tutti quei difetti nella propria persona che i detective hanno scoperto. Le sue finzioni, il suo estremo bisogno di piacere agli altri lo rendono una persona subdola ma vulnerabile, superficiale, calcolatore, antipatico ecc...la stessa cosa succede alla sua fidanzata Dawn (Naomi Watts), ingenua protagonista degli spot Huckabees, che nella fase di destrutturazione abbandona il suo look da modella e si veste con cuffia da pescatore e salopette. Ma mentre Brad riesce a sorpassare la fase, cercando di non sottostare alle sue debolezze, Dawn decide di essere sè stessa ora e per sempre, rinunciando alla carriera e di conseguenza al suo superficiale fidanzato.
La svolta nella vita di Albert arriva quando decide di smettere di servirsi dei detective anche se loro affermano insistenti che un caso non è chiuso se non è risolto. Tommy fa conoscere ad Albert Catherin Vauban, filosofa francese ex allieva di Bernard e Vivian, con una visione del mondo completamente diversa, niente è collegato ma anzi la realtà è dominata da caos, dolore, mancanza di senso. Lei le spiega che non c'è un modo per superare questa condizione ma "la purezza dell'essere" (colpirsi in faccia con un palloncino di gomma restando assuefatti dalla sensazione di stordimento e spenseratezza che il dolore provoca) può aiutare ad affrontarla. Ovviamente Catherine dimostra come l'uomo sia però anche figlio delle sue passioni, catechizza di non reprimere certe passioni e poi seduce Albert. Catherine risolve anche il districato mistero della coincidenza: cosi come quel ragazzo di colore, che si scopre essere un orfano africano adottato da una coppia di bigotti, Albert è orfano dei propri genitori, con i quali ha sempre avuto un rapporto complicato che lo ha portato anon mostrare loro mai alcun sentimento, vergognandosi dei propri dolori. Il ragazzo africano, orfano per i problemi sociali, e Albert, orfano per l'indifferenza. Infine un illuminazione di Albert fa luce sul misterioso passato che avvolgeva sia la coppia Jaffe (funzionalsti estremi) che Catherine Vauban (nichilista estrema) ma meglio tenerlo, almeno qui, misterioso.
Come detto ne la trama ne la sceneggiatura, ricca di dialoghi lunghi e fintamente complessi, spesso dispersiva ed errante, bastano per rendere il film degno di essere visto. Ma un cast di fenomeni a volte basta per un salto di qualità netto ed evidente.

[caption id="attachment_163" align="alignleft" width="192"]I 2 detective esistenziali a lavoro I 2 detective esistenziali a lavoro[/caption]

Su tutti i due "vecchi": un solitamente eccezionale Dustin Hoffman, che non ha certo bisogno di presentazioni, nel film meticoloso terapeuta, stravagante con un non so chè di folle, e Lily Tomlin, nei panni della compagna che forma una coppia perfetta, affezionata e dedita al lavoro. Grazie a loro il film riesce ad aquisire quel tono grottesco obiettivo sin dall'inizio del regista Russel. Poi Mark Wahlberg rende la pellicola, nei momenti in cui compare, comica oltre che grottesca, grazie al suo personaggio ambivalente; intellettuale, colto, sempre aperto alla discussione e al dialogo, ma che inspiegabilmente snobba e malmena le persone che ritiene inferiori a lui. Bravi anche Naomi Watts e Jude Law che è riuscito a non sfigurare nel confronto con Hoffman e Wahlberg nonostante il personaggio cucitogli addosso non sembra esser fatto per lui. Chi ancora una volta non regge il confronto è Jason Schwarzman, anonimo come gli era capitato già in altri lavori, ad es. Spun con Mickey Rourke, particolarissimo focus sul mondo della metaanfetamina. Riesce ad essere adeguatamente triste e depresso ma diversamente dagli altri non assorbe il grottesco diventando in alcuni momenti più che divertente patetico. Però è simpatico.

mercoledì 24 aprile 2013

Musica nel 2013: arte o business?

A causa del così detto “ponte” a cui andiamo incontro tra domani, 25 aprile (festa della liberazione) e il week  end, il freaky day sarà anticipato ad oggi: permettendo così a noi poveri autori del Freaky Times di giovare di un po’ di vacanze in più come ci piace tanto fare. A seguito di una lunga lotta sindacale con patron Martin “Stakanov” Morton abbiamo ottenuto le sospirate ferie e il permesso di saltare la pubblicazione di venerdì, oltre che quello di usare la redazione come sede del nostro party alcolico a patto di lavorare i prossimi Natale,Pasqua, capodanno e di rinunciare alle ferie per i prossimi 3 anni: ma quanto è umano direttore?

Nei primi del 900, a seguito del diffondersi sempre più egemonico della musica americana e inglese nel mondo, la produzione di dischi e la loro distribuzione è stata presa in carico da diverse organizzazioni sotto il nome di etichette discografiche. Inizialmente molto

[caption id="attachment_153" align="alignleft" width="150"]elio e le storie tese elio e le storie tese[/caption]

numerose, esse nel corso degli anni arrivarono a diminuire considerevolmente a causa delle fusioni avvenute fino a raggiungere un numero esiguo: la grande maggioranza del mercato musicale era controllato infatti da case denominate “Big Five” o “major”. Negli anni 30 e 40 le etichette erano diventate l’unico modo per un artista di farsi conoscere ed ascoltare dal grande pubblico e la loro espansione era arrivata a un punto tale da far accettare ai musicisti qualsiasi contratto fosse loro proposto: anche nei casi più svantaggiosi. A seguito di tale fenomeno cominciò a diffondersi nell’ambiente l’uso di assumere un avvocato che fosse in grado di esprimere un parere sugli accordi e soprattutto di tutelare da veri e propri raggiri. Negli anni 90 lo sviluppo di tecniche di registrazione a basso costo e studi di registrazione liberi a pagamento consentì agli artisti di realizzare da soli i propri dischi, mantenendo così una autonomia totale sulle scelte stilistiche e musicali, che sfociò nella costituzione di vere e proprie etichette discografiche indipendenti dalla minore visibilità. Non è raro storicamente che le major mettano il naso nelle decisioni dei musicisti limitandone le libertà di espressione seguendo i gusti del grande pubblico e da questo all’esplosione del fenomeno indipendente il passo è molto breve: artisti affermati appena il contratto con le big scade infatti spesso fondano etichette proprie. Questa appare essere l’esatto opposto di quanto accadeva negli anni 30 e 40.

images (1)Oggi con la recente creazione delle etichette online il monopolio delle major sembra definitivamente compromesso ma è realmente così? Nonostante queste apparenti rivoluzioni il mercato musicale è ancora controllato per il 71,7 % dalle major, che nel frattempo sono diventate “Big Three” dopo nuove fusioni, mentre la restante fetta di mercato è da attribuire a migliaia di case indipendenti che lottano per sopravvivere prive come sono di visibilità mediatica.

Il rapporto tra casa discografica e artista sembra essere per sua stessa natura sbilanciato a favore delle etichette: come può una band o un cantante raggiungere determinati livelli di popolarità, tali da poter vivere solo della propria arte senza di esse? Probabilmente la risposta è che non può. Generalmente si giustifica questo fatto considerando che solo i più dotati ce la fanno. Siamo portati a credere che solo nel momento in cui si è di fronte a talenti cristallini il mercato si accorga di loro ma i fatti ci insegnano che non è affatto così. Gli investimenti delle major sono finalizzati unicamente al guadagno e per raggiungerlo è necessario trovare artisti che possano piacere o altri da malleare affinchè piacciano. Chi non vuole rientrare in determinati schemi sembra destinato a una carriera breve e non molto fortunata ma pur sempre libera nel mercato indipendente. La prova più evidente di questo è che band come gli Oasis o gli Arctic Monkeys, per citarne alcune, si esibivano esattamente come oggi (o qualche anno fa per gli Oasis) prima dell’arrivo delle major e della fama. Liam Gallagher cantava “tonight I’m a rock’n roll star” davanti a 10 ubriaconi in un pub malfamato e fatiscente di Manchester nel 1991 come ha fatto poi dal 1994 di fronte a centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo quando una rock star lo è diventato davvero. La visibilità che danno le “big three” passando i video in tv e mandando di continuo i singoli per radio ottiene l’effetto di rendere il prodotto musicale (perche purtroppo di prodotti stiamo parlando) milioni di volte meglio rispetto a quello delle case indipendenti che di passaggi nei media nazionali non ne hanno. Una canzone di livello mediocre (tenendo sempre conto che può piacere a me ma non a qualcun altro essendo i gusti soggettivi) se ben pubblicizzata e magari se cantata da un cantante o una cantante di bell’aspetto può fare quello che, solo per fare un esempio, Mozart non ha mai potuto fare in vita: raggiungere il successo mondiale.

Ma dov’è finito il vecchio “art for art’s sake” di quel simpaticone di Oscar Wilde? Che fine ha fatto l’arte fine a se stessa? Si è vero che lui la intendeva come mancanza di messaggio morale nelle opere ma è un concetto sicuramente attuale rispetto alla musica mercificata. In altre parole si parla di arte nei casi in cui compaiono dei brani strutturati a tavolino, dei cantanti dal look sempre nuovo e sempre di nuova tendenza, a cui secondo molti le major li portano, per riscuotere il tanto agognato successo?

Probabilmente non esiste una risposta univoca alla questione: per quanti artisti emergenti disposti a qualsiasi compromesso artistico e morale al fine di avere fama e denaro ne abbiamo altrettanti di vecchia data disposti, come si diceva, a mettersi in proprio e a far prevalere il proprio buon nome, guadagnato in anni di buona musica, sui soldi che le major girano ai media per promuovere i dischi da loro prodotti. E’ il caso di Elio e le storie tese, per esempio, i quali producono da sé i propri lavori e avendo una fetta di pubblico affezionato ormai assodata non ha bisogno di pagare profumatamente radio e tv per essere diffuso: i media sanno benissimo che il pubblico guarderà i loro video e li considera un investimento sicuro. Artisti affermati come gli “elii” una volta fondata una etichetta indipendente spesso aiutano colleghi emergenti lasciando loro autonomia artistica e facendoli passare dai media creando dunque un circolo virtuoso da cui possono uscire successi commerciali ma comunque di buon livello musicale.

Beh se pensate ancora ci sia solo del marcio nella musica oggi e che ogni brano che sentite alla radio sia frutto di artisti venduti alle multinazionali forse vi tirerà su il caso degli Arctic Monkeys i quali la fama in Inghilterra la raggiunsero ben prima di firmare per una major e addirittura ben prima di pubblicare il loro primo album (di cui abbiamo parlato qualche settimana fa qui al Freaky Times). Regalando cd di pochi minuti registrati in proprio con le loro prime canzoni a chi li andava ad ascoltare ai loro concerti e masterizzandone quantità enormi, oltre che grazie al profilo myspace, le scimmie artiche divennero star della scena “indie” in pochissimo tempo. Quando finalmente si decisero a firmare per una major per questa non ci fu nemmeno bisogno di pubblicizzare il loro album o di farli giungere a compromessi: raggiunsero le 363.735 copie vendute solo nella prima settimana di uscita. Forse a volte la meritocrazia esiste ancora.

martedì 23 aprile 2013

Crazy in Alabama (5,5/10)

Si torna ad offrire recensioni cinematografiche qui al freaky times ed oggi si parla di una simpatica commedia divisa tra humor nero e tensioni sociali. Crazy in Alabama (Pazzi in Alabama), del 1999, è la commedia d'esordio alla regia di Antonio Banderas, di cui tutti oggi riconoscono il talento per il suo lavoro migliore, le pubblicità della mulino bianco. Sempre considerato un buon attore Banderas non risulta niente male anche nei panni di director anche se non eccede in nessuna qualità particolare riducendo il film a quasi privo di stile. Il soggetto è tratto da un romanzo di Mark Childress (Crazy in Alabama tradotto in italiano "Estate di follia"), autore anche della sceneggiatura.

[caption id="attachment_147" align="alignright" width="150"]La Griffith nei panni di Lucille e Banderas sul set La Griffith nei panni di Lucille e Banderas sul set[/caption]

La star è Melanie Griffith che, tre anni dopo il matrimonio con Banderas, si è affezionata a questa sceneggiatura e con la sua caparbietà è riuscita a mettere pressione su Meir Teper, produttore per la Columbia films, e a fargli scegliere come regista il suo maritino; il ruolo infatti era destinato a Danny De Vito che avrebbe scelto nel cast per il ruolo di Lucille la sedicente Sharon Stone, tra l'altro vecchia fiamma di mister Morton. Nel cast anche David Morse, famoso per essere il tenente antagonista del noto Dottor House, e Rod Steiger, un protagonista nel cinema degli anni 50. Ed è proprio al cinema degli anni 50 che lo stile cinematografico adottato da Banderas sembra richiamare.

1965, Alabama. La provocante Lucille racconta ai parenti, fratelli e nipoti, di aver ucciso il marito, un uomo che da sempre la maltrattava e la opprimeva, e che ora, finalmente libera, è pronta per raggiungere la propria realizzazione, diventare un'attrice a Hollywood. Solo al suo affezionato nipotino Peejoe rivela di aver anche decapitato lo zio e che la sua testa se la porterà con lei, alla volta della California. Lasciando i suoi sei figli dal fratello Dove comincia la sua esperienza da fuggitiva criminale non priva di complicazioni; compra una cappelliera dove custodire la testa di suo marito, che intanto comincia a dialogare con lei assillandola proprio come faceva prima di essere staccata dal resto del corpo, e poi è costretta a minacciare un barista con la pistola per rubargli l'auto. Il protagonista passivo del film è comunque il giovane Peejoe (Lucas Black), ragazzino praticamente innamorato dello spirito della zia che arriverà alla maturazione grazie a tutti gli insegnamenti che gli porteranno le sue esperienze. Nella cittadina dell'Alabama è tempo di tensione politica e sociale, gli echi delle parole e delle idee del reverendo Martin Luther King sono infatti arrivate anche qui e la comunità nera è decisa a prendersi i diritti che le spettano. Il crudele sceriffo Doggett, che sembra avercela con Peejoe e con la sua famiglia visto che non forniscono nessun indizio per catturare zia Lucille, è però deciso a far si che i negri restino solo negri e ad ogni occasione reprime i loro entusiasmi. In un eccesso di foga però, uccide un ragazzino nero, tirandolo giù da una rete che stava scavalcando per scappare. Nessuno però si sogna di accusare uno sceriffo, nessuno se non Peejoe, unico testimone oculare del fatto. La trama va avanti seguendo di pari passo la storia di Peejoe e quella di Lucille, che dopo esser stata catturata in Nevada seduce la guardia gli sfila le chiavi, lo ammanetta e riparte inseguendo i suoi sogni. Arriva ad Hollywood e viene subito catapultata in un mondo non suo, ricco di arpie e insidie, ma nel quale comunque dimostra di saper stare. La sua predisposizione all'appeal e alla recitazione le permettono anche di ottenere un discreto successo, ma l'accusa dell'omicidio continua a perseguitarla. Intanto in Alabama Peejoe diventa famoso, tutta l'America viene a sapere degli episodi razzisti accaduti e tutta l'America vede in ciò l'emblema della situazione, riconoscendo nel ragazzo il volto della ribellione e del cambiamento. Persino Martin Luther King in persona decide di recarsi nello sperduto paesino e conosce Peejoe. Lucille, capendo i rischi che sta correndo e soprattutto perché non ne può più delle pressioni che le vengono fatte dalla testa del marito, decide di liberarsene ma proprio sul più bello due poliziotti la intercettano. Viene trasferita in Alabama, per il compiacimento dello sceriffo, dove verrà processata, accusata e imputata colpevole di omicidio di primo grado. La sua pena è però mite, data la sua lampante instabilità emotiva il giudice decide che Lucille debba sostenere per 5 anni cure psichiatriche. Durante il processo Peejoe, completamente fuori luogo, accusa per la prima volta pubblicamente Doggett del tanto discusso omicidio del giovane Jackson e il giudice quindi fa arrestare anche lo sceriffo.

[caption id="attachment_148" align="alignleft" width="150"]La locandina del film La locandina del film[/caption]


Il film è piacevole, scorrevole, anche divertente di un'ironia atipica ma efficace che gioca tutto sul personaggio di Lucille interpretata ottimamente dalla Griffith che fa sua l'ingenuità e la semplicità di valori di un'aspirante attrice che non ha mai visto nulla del mondo, se non il suo piccolo paesino in Alabama e il suo deviato marito che le ha rovinato gran parte della vita tenendola praticamente incatenata a sè. Ed è proprio la condizione di Lucille che impietosisce il giudice, il suo essere lunatica, la sua inconsapevolezza, la sua pazzia che fa solo da cornice a tutte le sue avventure. Peejoe infine fa il punto su cosa quell'intensa e unica estate gli ha insegnato tanto della vita. La solidarietà e l'amore per la libertà, quella libertà per la quale hanno assiduamente lottato prima la sua dolce zia e poi quella comunità nera di cui si è reso paladino.
Il film è condito da una sottile linea di action che rende tutto più appassionante (unico merito che và a Banderas). Da segnalare anche una colonna sonora spassosissima con classici come "Lucille" di Little Richard o "Little miss happiness" degli Whitesnake di David Coverdale, voce dei Deep Purple per un paio d'anni, rivisitati da Mark Snow (ammetto non so chi però sia) o la famosa "These Boots are made for walking" di Nancy Sinatra!

lunedì 22 aprile 2013

L'Ombra del Vento

[caption id="" align="alignleft" width="150"]La copertina del romanzo La copertina del romanzo[/caption]

A Barcellona una mattina d’estate del 1945 il proprietario di una piccola libreria come tante, il signor Sempere, conduce il figlio undicenne Daniel al “Cimitero dei libri dimenticati”, un luogo segreto dove vengono sottratti all’oblio migliaia di volumi di cui il tempo ha cancellato il ricordo. Qui Daniel entra in possesso di un libro “maledetto” (l’Ombra del vento appunto) che cambierà il corso della sua vita, introducendolo in un mondo di misteri e intrighi legato alla figura di Julian Carax, l’autore di quel volume. Lo scrittore, di cui si sono perse le tracce da anni e di cui tutti danno per scontata la morte, affascina chiunque legga i suoi libri così come chiunque lo abbia conosciuto nonostante un alone di mistero si celi sul suo passato. Daniel ne rimane folgorato e mentre proprio dagli anni che furono iniziano ad emergere storie di passioni illecite, di amori impossibili, di amicizie e lealtà assolute, di follia omicida e un macabro segreto custodito in una villa abbandonata, il ragazzo scopre innumerevoli parallelismi tra la vita di Carax e la sua. Nel finale la trama non lascia spazio a pause dalla lettura del romanzo: i colpi di scena che si susseguono uno dopo l’altro tengono il lettore attaccato fino all’ultima pagina. In tutto questo l’autore Carlos Ruiz Zafon è più che un maestro.

L’ombra del vento è uscito in Spagna nel 2001 in sordina ma nel corso degli anni, soprattutto grazie al passa parola dei lettori  che lo hanno amato da subito è diventato un successo editoriale di livello mondiale. A sette anni dalla sua uscita basti dire che i milioni di copie vendute erano ben 8, mentre le lingue in cui è stato tradotto raggiungono quota 40.

Il segreto di questo romanzo, ma anche dell’intera produzione di Zafon, sta in diverse sfaccettature della sua scrittura: le ambientazioni sono descritte fin nei particolari più minuziosi, oltre al fatto che le strade di Barcellona a cui si fa riferimento sono tutte indicate per nomi. La città catalana martoriata dalla guerra civile appena terminata, ma che ancora ne subisce i fantasmi, entra dentro al lettore in modo assoluto grazie alle storie di gente come probabilmente se ne poteva, e forse si può ancora, incontrare per la strada tutti i giorni: gente non particolarmente ricca, famosa, appariscente o dotata di chissà quale talento,  ma che ha migliaia di storie di ogni tipo da raccontare (forse il comune denominatore di tutte le guerre).  La psicologia dei personaggi, curata in modo maniacale,  li fa entrare immediatamente nella nostra mente come vecchi conoscenti o amici di una vita da tanto è ben curata. Daniel, il protagonista narratore, inoltre è un personaggio in cui è impossibile non ritrovarsi caratterialmente ma anche per il percorso di vita che compie (raccontato per gran parte nel libro) e se a questo aggiungiamo il fatto che è lui stesso il narratore, beh come non apprezzare questo romanzo?

Povera gente, soprusi di una dittatura militarista che si è imposta reprimendo la popolazione indifesa e che spesso non comprende fino in fondo gli ideali in gioco, un bambino e poi ragazzo che in mezzo a questo bizzarro ma in fondo  normalissimo mondo cresce tra i libri e esperienze quotidiane ricchissime: c’è chi (rivoluzione a parte) vede dei chiari riferimenti a Charls Dickens nel mondo di Zafon. Lo stesso autore ammette senza problemi di averlo letto e di averne tratto grande ispirazione, ma se nei romanzi dell’inglese troviamo raccontata la vita della povera gente che si rapporta con difficoltà all’inghilterra industriale del diciannovesimo secolo, nell’ Ombra del vento abbiamo il racconto di una miseria senza tempo come si è vissuta un po’ ovunque dopo una guerra e sarà forse per questo che non è passato inosservato ovunque lo si è stampato.

[caption id="" align="alignleft" width="150"]Zafon divora una penna Zafon divora una penna[/caption]

Oltre allo spaccato della Spagna della seconda metà del 900 e alla vita dei nostri personaggi abbiamo una trama degna del massimo rispetto sia per i già citati colpi di scena, sia perché rappresenta, nel suo seguire Daniel durante la sua crescita, un esempio di romanzo di formazione come non lo si vedeva davvero da anni. Il velo di mistero che Zafon crea sullo scrittore maledetto Julian Carax, il quale si scoprirà essere un artista in vero e proprio stile bohemien, e ovviamente il sottile filo che il giovane Daniel cercherà di seguire per farvi luce sono il valore aggiunto a quello straordinario caso letterario che è L’Ombra del vento.

Zafon ha inizialmente scritto questo romanzo come una storia a sé, ma ha in seguito ampliato la sua vicenda attraverso “Il gioco dell’angelo” del 2008, anch’esso con una trama completa al suo interno che poi viene collegata all’Ombra del vento tramite il terzo capitolo di quella che ormai è diventata una saga: “Il prigioniero del cielo” (2011). L’autore ha annunciato, come si era comunque già intuito leggendo questi romanzi, che sta lavorando al quarto e ultimo tassello della serie: perché non cogliere l’occasione di entrare nel mondo del cimitero dei libri perduti e della libreria “Sempere e figli”?

venerdì 19 aprile 2013

Il campionato più bello del mondo

Buonanotte e ben ritrovati ai lettori di "The feaky times". Ovviamente è necessario fornire una spiegazione al fatto che in questi ultimi giorni non sono stati pubblicati articoli, sicché più o meno chiunque si è sentito smarrito e confuso. Beh anche noi siamo stati vittima del maltempo che nelle precedenti giornate ha invaso il norditalia, le incessanti piogge hanno provocato violente inondazioni che hanno reso inaccessibile l'utilizzo di computer. Speriamo che come scusa regga.

Ma oggi è anche il freaky day e ci è sembrato carino, dato che non se ne parla da un pò, di integrarvi il magico calcio. Ma basta parlare di quello che accade giorno per giorno sui campi della Serie A, di Champions ecc..., quelle cose di cui i giornali trattano fino allo sfinimento e che quindi sappiamo a memoria. Noi del Freaky siamo più sofisticati e sicuramente molto più belli. Ci siamo chiesti se, tra i vari campionati nel mondo, ce ne fosse uno emblema della bellezza di questo sport, che riesca tutti gli anni a trasmettere emozioni forti e chiare agli appassionati e non solo, insomma ci siamo chiesti quale fosse il campionato migliore del pianeta. La ricerca della risposta parte un pò in maniera maleducata, scartando a priori e senza spenderci troppe parole i campionati asiatici, quelli africani, quelli dell'Oceania non per motivi personali ma perchè questi tornei non possono essere più di tanto affascinanti affascinanti visto che non offrono lo spettacolo puro, l'affluenza agli stadi in alcune zone è buona (ad esempio in Australia o Cina) e lo è anche la condizione economica dello società migliori (ad esempio lo Shangai Shenhua può competere con i colossi europei) ma oggettivamente manca tecnica e organizzazione, colpa di una scuola calcio che attira poco i giovani più interessati ad altri sport, quelli più popolari nei loro paesi, strano ma vero il calcio non è popolare ovunque. Ci sono poi i campionati sudamericani, che sfornano in continuazione talenti che vengono a completare la loro formazione in Europa. Si in Europa perchè nonostante in sudamerica ci siano campionati molto validi e spesso eccitantissimi (parlo di quello Argentino e ancor di più quello Brasiliano) questi rimangono un gradino sotto alle top-league europee, dove il calcio è più completo, studiato nei più minimi dettagli in entrambe le fasi e soprattutto è lo sport più seguito nella maggior parte dei paesi (Portogallo, Spagna, Italia, Francia, Olanda, Germania, Polonia, Russia, Romania, Albania ecc...). Il campionato argentino è complicato, sto ancora cercando di capire come funzionava, fatto sta che il River Plate se l'è aggiudicato ben 33 volte, imponendo svariati decenni di quasi totale dominio, come negli anni '40 e '50 e ancora negli anni '90 e 2000, rendendo il campionato spesso prevedibile e privo di pathos. E quando il River non portava a casa la coppa ci pensava il Boca Juniors a strappargliela (sempre negli stessi decenni il Boca ha vinto la maggior parte dei suoi titoli, 13 su 24) dando vita a duelli comunque piacevoli ma limitati a due sole teste di serie, un pò come succede tutt'oggi nel calcio spagnolo tra Barca e Real. Il campionato Brasiliano è certamente storicamente meno forte (ce ne accorgiamo se andiamo a controllare l'albo d'oro della coppa Libertadores) ma più equilibrato, con un maggior numero di tifosi, per i quali il calcio è svago, passione e religione. Dal 1959, anno della creazione di un campionato nazionale e non più statale, il torneo è stato vinto 8 volte dal Palmeiras 8 dal Santos e 6 dal San Paolo e così via. Regnano equilibrio e spettacolo fuori e dentro il campo e allora cosa manca al campionato brasiliano? L'abbiamo detto, tecnica (non certo quella individuale ma tattica) e appunto organizzazione. Ci sarà un motivo se al mondiale per club ogni anno la strafavorita è la vincitrice della Champions, anche se non è inusuale vedere figuracce come quella del Chelsea lo scorso dicembre. A onor del vero e a rigor di logica le squadre più forti danno vita ai campionati migliori. Il campionato Spagnolo ha la squadra più vincente della storia, quindi la più forte, il Real Madrid e forse proprio per questa sua forza ha reso di continuo la liga un campionato senza sorprese se non fosse per la sua nemesi il Barcellona, non solo un club ma da sempre uno stile unico di fare calcio, rendendo spesso una partita un'opera d'arte. Due squadre tutti gli anni fortissime, che si sono praticamente sbarazzate della concorrenza rendendo la Primera Division sempre una corsa a due (basta pensare che le altre squadre ad aver vinto più di un titolo sono solo 4). Se un campionato è di 20 squadre non è bello che per 18 tifoserie ogni stagione l'obiettivo massimo dev'essere il terzo posto. Quindi vengono scartati il campionato spagnolo, scozzese e olandese per l'assenza di equilibrio generale, mi spiace. Uno dei campionati che periodicamente subisce una metamorfosi gerarchica è quello francese dove la squadra storicamente più vincente in ambito internazionale (il Marsiglia) non è neanche il club che detiene più titoli (9 contro i 10 del Saint-Etienne). Vero che è uno dei più equilibrati, proprio l'anno scorso l'ha vinto un Montpellier costituito da sconosciuti, però dai è noiosissimo, solo Sportitalia ha avuto il coraggio di comprarsene i diritti, la media gol a partita è la più bassa d'Europa e tutto ciò rende impossibile affezionarsi più di tanto a questo torneo, scartati anche loro.

[caption id="attachment_137" align="alignleft" width="150"]La pazzesca coreografia al wesltfalenstadion a Dortmund La pazzesca coreografia al wesltfalenstadion a Dortmund[/caption]

Uno dei campionati che più mi affascina personalmente è la Bundesliga, un campionato dove per 17 squadre su 18 l'obiettivo è ben definito prima di cominciare qualsiasi stagione, battere il Bayern. Diversamente da quanto accaduto in Spagna (dove il Barca funge da anti-real) in Germania il ruolo di anti-bayern non ha mai avuto un interprete preciso, molti club dal Dortmund allo Shalke allo Stoccarda hanno sempre cercato di limitare lo stra potere del Bayern di Monaco. Un campionato bello perchè sempre nel vivo, è il più corto tra i grandi europei, è quello economicamente messo meglio, negli ultimi tempi riescono a sfornare anche ottimo gioco, riuscendo a contrastare, quasi efficacemente, l'egemonia in Europa dei club spagnoli e inglesi; oggi è formato da allenatori metodici, giovani talentuosi e top.player affermati senza contare che tutti i week-end sugli spalti è una festa per i tifosi, qualsiasi sia il risultato, un contributo fondamentale per la squadra senza mai però risultare irrispettosi e pressanti (cosa che in Italia accade di continuo). Però mi tocca scartare anche i tedeschi, solo 6 Champions in totale conquistate? Sono un pò pochine se pensiamo che Inghilterra e Italia ne hanno vinte 12. Allora la finale è giusto che se la giochino loro; Serie A o Premier? Un lettore scaltro ovviamente è partito dell'idea che non sarei mai arrivato fino in fondo, pretendendo di avere l'ultima parola su quale fosse effettivamente il "campionato più bello", magari divagando nel finale dicendo "eh ma ognuno a suo modo sono tutti belli"...
Beh ognuno a suo modo, ogni campionato di calcio è fantastico, ma è innegabile che Italia e Inghilterra abbiano qualcosa in più degli altri. Se magari l'Inghilterra raggiunge l'Italia per quanto riguarda il calore, la passione e la devozione dei tifosi riuscendo a trasformare il calcio da sport a stile di vita di sicuro ci può invidiare il nostro modo di intendere e fare calcio.

[caption id="attachment_136" align="alignright" width="150"]Il momento della vittoria City Il momento della vittoria City[/caption]

La Premier è un campionato dal gioco molto fisico, molto veloce con le squadre che abbandonano spesso e volentieri i tatticismi tanto da far sembrare ogni partita una competizione da Arena dove chi si ferma è perduto. Per questo ogni partita è avvincente, ogni campionato è avvincente (più unico che raro il trofeo vinto al 93' l'anno scorso dal Manchester City ai danni dei rivali dello United; per capire fino in fondo cosa vuol dire il calcio bisognerebbe chiedere ad un tifoso del City cosa provò nell'istante in cui vide la palla rotolare dentro, anche se quell'ubriacone probabilmente non se ne ricorderebbe. Non voglio cadere vittima del patriottismo e concludere dicendo che i più belli siamo noi, i più forti siamo noi, il campionato più bello ce l'abbiamo ma francamente è inevitabile. Che dire, abbiamo la miglior scuola calcio al mondo, abbiamo avuto allenatori che hanno rivoluzionato più volte l'idea stessa di calcio giocato, da Pozzo a Sacchi, abbiamo tre squadre sempre vincenti e mille altre sempre pronte a rosicchiare qualcosa quando Inter, Milan o Juve si perdono per strada, permettendo a noi tifosi e spettatori di avere tutti gli anni un campionato poco scontato, perennemente in bilico, incorniciato da episodi, polemiche, litigi, sceneggiate fuori e dentro il rettangolo bianco, un classico campionato all'italiana insomma.

[caption id="attachment_135" align="alignleft" width="150"]Il noto 5 maggio 2002 Il noto 5 maggio 2002[/caption]

Non credo di riuscire a trovare parole adatte per descrivere al meglio la nostra serie A o le emozioni che ci fa provare, ma ci sono momenti in cui le parole non servono neanche, basta giusto scavare un pò nella memoria, pensare all'ultima volta che abbiamo visto qualcuno piangere per una retrocessione o per uno scudetto mancato (ci viene facile pensare agli interisti è chiaro) o a quante volte abbiamo sentito il nostro vicino urlare di gioia su un rigore avversario fallito. Lunga vita alla Serie A e lunga vita al calcio.

martedì 16 aprile 2013

The 2nd law (8/10)

Siamo tutti qui riuniti per parlare di quel gruppo  che sta scrivendo il proprio nome nella storia della musica negli ultimi anni forse al pari, questa è l’opinione di fan e critica, dei mostri sacri che hanno creato la leggenda rel rock. Non può che essere un onore parlare di loro e della loro ecletticità. Nonostante Mr. Morton mi avesse proposto di parlare di canzoni come il pulcino pio o Gagnam style, perché a suo dire sarebbero molto più appetibili al pubblico io perseguo nella linea rocchettara che la rubrica musicale ha avuto fino ad ora, pur sapendo la fine che mi attende nel disubbidire al nostro amato finanziatore e mentore. Oggi si omaggiano i Muse e il loro sesto album in studio: “The 2nd law” del 2012.

[caption id="attachment_129" align="alignleft" width="150"]Il pulcino pio tanto amato dal nostro Martin Morton Il pulcino pio tanto amato dal nostro Martin Morton[/caption]

Nonostante siano arrivati al loro sesto lavoro i tre ragazzotti inglesi di Teignmouth riescono ancora una volta a stupirci. Li avevamo visti nei panni di band post Grunge nei loro primi dischi, li avevamo apprezzati nelle loro performance live tra la distorsione più ruggente e la melodia più dolce (che rimane sempre il loro principale merito)ma quando si ascolta “The 2nd law” si ricomincia tutto da capo, li si ama come la prima volta.

Il disco ci mette subito di fronte a “Supremacy”, forse il brano più simile a quello che ci hanno mostrato in passato le nostre muse preferite, pur non risultanto scontati: si parte con un riff di chitarra più distorto che mai che pare un omaggio ai Led Zeppelin per poi cedere ai violini e alla voce di un’altezza sconvolgente di Bellamy nella strofa e nel pre ritornello. Un assolo di chitarra, anche se semplice,  che entra perfettamente nell’atmosfera del brano non può che impreziosirlo. Non fa in tempo a terminare il primo pezzo che comincia qualcosa di completamente nuovo nel loro repertorio, un brano che fa dell’elettronica e della voce ancora una volta irreprensibile di Matt quel successo planetario che è Madness, mai abbiamo avuto il piacere di ascoltarli alla radio tanto quanto con questo singolo. Certo, forse i loro fan storici storceranno un po’ il naso di fronte ala svolta pop di questa traccia, ma anche le orecchie più esigenti saranno accontentate al momento opportuno. Ecco dunque “Panic Station”, una ritmica fatta di batteria martellante e riff di basso impressionante che non può che farci muovere a ritmo mentre la ascoltiamo pur senza che la chitarra faccia mai sentire la sua presenza in maniera preponderante. Ricorda sonorità d’altri tempi, forse anche per la presenza delle trombe ad impreziosirne l’arrangiamento. Il ritmo lascia il posto alla pura melodia classica in “Prelude”, un vero e proprio preludio a “Survival”, l’inno ufficiale dei giochi olimpici di Londra 2012. Una canzone che più solenne non si può: coro maschile e femminile alternato, intro che sembra tratto da un’opera e ritornello che va a farci sentire tutta la grinta che sta dietro lo sport e lo sforzo per raggiungere la gloria eterna con il chitarrone ancora una volta distortissimo. Le urla “fight!fight!win!win!” del resto non mentono. La canzone al primo ascolto sembra non risolversi mai rispetto alla tensione della strofa, ma rappresenta perfettamente l’evento per cui è concepita: adrenalina e emozioni allo stato puro. “Follow me” è un’altra ciliegina sulla torta “The 2nd law”, un intro che riporta alla mente la cara vecchia “Take a bow” e arrangiamento sempre vicino al pop, ma che non sfigura mai se dietro il microfono hai uno come Matthew Bellamy. Animals ci porta attraverso atmosfere quasi mistiche nei suoi continui preziosismi chitarristici e alle linee vocali a cui si aggiunge il bassista Chris Wolstenholme nel finale. Negli ultimi anni è innegabile che lo stile che fonde il genio di Bellamy al piano e alla chitarra maturato dei Muse si sia avvicinato come pochi altri ai Queen,i quali vantavano Bryan May e il grande Freddy Mercury  a questi strumenti ma in “Explorers” i dubbi svaniscono e lasciano il posto a nuove certezze: i Muse cercano il confronto coi i Queen e lo reggono con grande classe. Il riferimento nella melodia e nel testo a “Don’t stop me now” dei loro mentori è più che evidente e risulta difficile crederlo casuale. “Big Freeze” alterna una strofa quasi sussurrata per buoni tratti a un ritornello di una carica potentissima. La musica è di prima qualità ma sembra qui abbassarsi a semplice accompagnamento delle linee vocali qui più che mai protagoniste. La svolta delle tracce “Save me” e “Liquid state” sta proprio nei testi, curati per la prima volta, così come la loro intera composizione dal bassista Chris, il quale racconta la sua dura battaglia contro l’alcol al loro interno. Non male per essere la prima esperienza come “prima voce” per Chris, anche se competere con il tuo amico Matt lo sai caro è dura, fai comunque la tua discreta figura. “Unsustainable” è un pezzo figlio in tutto e per tutto del 2012, anno del dubstep e di Scrillex, che produce e suona in ogni album possibile  i Korn su tutti). I Muse però non ci stanno a omologarsi e a imitarlo: si cimentano nel dubstep suonandolo con gli strumenti veri e senza l’ausilio del computer (strumento di base per chi fa questo genere di musica). Non contenti di essersi avvicinati anche a questo nuovo genere lo mischiano con un magistrale solo di violini, creando un mix strano ma fantastico nella sua bizzarria. Il risultato è una traccia strumentale che non annoia mai, in cui l’unica voce che sentiamo è quella campionata di una giornalista che ci mette in guardia sull’insostenibilità dell’economia di questi anni, fatta di sprechi e inquinamento estremo. “Isolated System” ci mette ancora una volta di fronte alla degenerazione del clima terrestre che l’azione dell’uomo comporta con il suo ossessivo giro di piano mischiato a ritmiche progressivamente più forti in cui torna ancora la voce della giornalista e chiude così in modo riflessivo ed emozionante il disco.

[caption id="" align="alignnone" width="150"]La copertina del grande album. La copertina del grande album.             [/caption]

The 2nd law contiene tutto ciò che i Muse si sono sempre vantati di essere nelle loro produzioni: innovatori, sperimentali ma anche ricchi di cultura musicale sui loro predecessori anche per quanto riguarda l’opera classica e attenzione a temi legati al sociale più che mai attuali. Chi li conosce sa che continueranno a stupirci per chissà quante volte ancora, chi li conosce sa che il loro successo è più che meritato ma soprattutto chi li conosce sa che è impensabile perderseli nelle prossime date in Italia quest’estate (28/29 Giugno allo Stadio Olimpico di Torino, 6 Luglio all’Olimpico di Roma). E chissà che anche noi del Freaky Times non ci si faccia un salto…Martin “pio pio” Morton permettendo.

 

 

 

lunedì 15 aprile 2013

Una Vita Al Massimo (6/10)

Quest'ennesimo appuntamento con il cinema lo vogliamo aprire con una dedica al nostro collega, recensore di Upside Down, che dopo la pubblicazione dell'articolo è misteriosamente scomparso, forse tragicamente deceduto. Siamo addolorati ma la redazione si prodiga nel sostenere che mister Martin "peace-lover" Morton non ha nulla a che vedere con questa tragedia e le prove sono evidenti.
Ma cambiamo completamente argomento e parliamo finalmente del film di oggi, un film ripescato dalla cosidetta "trilogia pulp": "Una vita al massimo" del 1993 diretto da Tony Scott, fratello minore per età e francamente anche per talento di Ridley Scott.

[caption id="attachment_121" align="alignright" width="150"]Locandina del film Locandina del film[/caption]

Tralasciando la regia, alla quale comunque vanno riconosciute le buone capacità di tecnica e organizzazione, il merito del successo del film è in larghissima parte da attribuire al genio di Quentin Tarantino, padre della sceneggiatura, che aveva da poco esordito da regista con la sua opera prima "Le iene" (1992) e si sarebbe presto affermato a livello internazionale con il suo eccitantissimo "Pulp fiction", facendo apprezzare ai più il suo modo di fare cinema tra dramma e ironia. Sempre loro i temi alla base del cinema di Tarantino, ironia e dramma, ma non confondiamo il dramma con il dolore da esso procurato. Niente emozioni nel cinema del regista del Tennesee, solo un sadico umorismo creato da una realtà malata su cui aleggia. Ci piacerebbe dilungarci ad analizzare l'arte di Tarantino ma non siamo qui per questo.

[caption id="attachment_122" align="alignleft" width="150"]Il Quentin pazzerello Il Quentin pazzerello[/caption]

Il protagonista di "Una vita al massimo", Clarence, è addetto in un negozio di fumetti con una passione che ha dell'ossessivo per Elvis, tanto che più volte si trova a colloquiare con il fantasma del cantante (per chi non lo sapesse è sintomo di schizofrenia). La vita apparentemente tranquilla (dico apparentemente perché ne sappiamo effettivamente gran poco) viene sconvolta dall'incontro con la giovane e provocante Alabama Patrice, prostituta pagata dal capo del ragazzo affinché per una sera si potesse divertire. Disgraziatamente lei si innamora di lui, lui si innamora di lei e tra il matrimonio, il sesso e la passione sfrenata tutto sembra procedere a meraviglia. Clarence però non riesce a convivere con l'idea che il magnaccia di Alabama, Drexl, sia ancora una potenziale minaccia per lei e dopo un colloquio col saggio Elvis Presley decide di ucciderlo. Freddo e determinato il ragazzo va al pub di Drexl e compie il delitto e porta via una valigetta che invece di contenere gli effetti personali della consorte contiene mezzo milione di cocaina. Vedendo in questa situazione l'occasione della vita per arricchirsi i due partono alla volta di Los Angeles per andare da Dick, vecchio amico di Clarence ora attore, e attraverso le sue conoscenze smerciare la droga ma la mafia, a cui apparteneva la merce, gli dà la caccia. Dick conosce Elliot, che a sua volta conosce Lee Donowitz, produttore cinematografico di discreto successo e potenziale acquirente della coca. La mafia intanto raggiunge e tortura il padre di Clarence per estorcere qualche informazione, ma il silenzio del vecchio che paga con la vita è inutile visto che un bigliettino sul frigo rivelano ai gangster indirizzo e numero al quale il giovane era diretto. I sicari raggiungono casa di Dick dove un insolito Brad Pitt, il coinquilino, versione fattone di serie b, inavvertitamente dà le ultime informazioni alla mafia.

[caption id="attachment_124" align="alignleft" width="150"]Pitt Brad Pitt in una scena del film- interpretando un fattone[/caption]

Coccotti, il sicario raggiunge la stanza del motel dove però incontra solo Alabama e dopo un'aggressiva e violenta disputa lei riesce ad ammazzarlo a colpi di pistola. la polizia ha intercettato Elliot, l'intermediario nell'affare, e vuole usarlo nell'operazione che avrebbe incastrato Lee Donowitz attrezzandolo di microfono spia. Il giorno del decisivo incontro è arrivato e ci dispiace dover stendere un velo di mistero sul finale per non rovinare la sorpresa a nessuno. Concludo solo dicendo che vi è uno spettacolare mexican standoff nello stile spaghetti western tra polizia, mafia e protagonisti.

In questo film come in tanti altri di Tarantino ciò che più è affascinante e apprezzabile è l'assurdità dei personaggi, su tutti Clarence, alter-ego di Quentin, ragazzo mediocre con una vita forse monotona, ma che dopo aver provato l'amore si trasforma nel più tenero amante e nel più spietato dei criminali. Il tutto sostenuto e quasi incentivato dalla moglie Alabama, tanto bella quanto ingenua, di una disarmante semplicità figlia delle sue poche e misere esperienze di vita. Poi Dick, il suo coinquilino, Elliot e anche i poliziotti, si trovano a dover affrontare un qualcosa più grande di loro, finendo per essere risucchiati da una realtà a cui sono estranei. Ed è quest'estraneità dei personaggi, su cui viene posto l'accento dallo sceneggiatore, che rende il film ironico in maniera surreale, senza curarsi delle emozioni provocate dai drammi (come ad esempio la trucidazione del padre di Clarence). Lo spettatore assiste all'evolversi delle vicessitudini di questi pseudo-gangster scoprendo sempre più che la loro inettitudine nel campo del crimine e della violenza contribuisce solo a farli sembrare più ridicoli. Lo spettatore può e deve anche usare la propria fantasia, per scavare nei protagonisti e immaginare le loro storie personali, tutte quelle storie che sembrano intriganti ma che il film sceglie di non raccontare
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venerdì 12 aprile 2013

Quiz tv: un successo fatto di cultura?

Accendo la tv, sono le ora 18 e 50, cosa mi propongono le reti nazionali? I tanto amati quanto da molti altri odiati quiz televisivi della fascia preserale. Sappiamo tutti a cosa mi riferisco: considerando quelli che ci sono stati proposti negli ultimi 15 anni abbiamo per la rai “L’eredità” su Rai 1 già dal 2002 e “Reazione a catena” che la sostituisce d’estate, per quanto riguarda mediaset la lista è più lunga con “Chi vuol essere milionario?”, “Avanti un altro!”, “Il braccio e la mente” e (attualmente) “The money drop”. Considerando che i telespettatori di questi quiz, pur essendo in gran parte anziani e quindi persone che non escono molto di casa, per il resto sono individui di ogni età e sesso, è innegabile che tale format (nelle sue varie versioni)  riscuota un successo assoluto. Questo fenomeno del resto non è affatto recente in quanto già nel 1955  fu introdotto nella tv italiana da Mike Buongiorno con il celebre “Lascia o raddoppia?” e da allora è rimasto ininterrottamente nelle nostre televisioni. Non lo si può nemmeno considerare un caso italiano dato che la stessa situazione si presenta un moltissimi altri paesi come gli Stati Uniti, da cui spesso i nostri produttori comprano i format delle trasmissioni. Dove sta l’elemento irresistibile che da ai dei quiz un’attrattiva così grande e li rende un evergreen da ormai sessant’anni? Il loro ricompensare con denaro o altri premi  i concorrenti che hanno dimostrato di essere preparati dando risposte secche e per nulla  argomentate propone  vera cultura o semplice nozionismo alla portata dei più?

Nella seconda domanda sta probabilmente già la risposta alla prima. Nel corso di tutti questi anni in molti, lo ammetto per lo più studiosi che non ne apprezzavano il contenuto, hanno cercato di capire quale fosse il loro segreto con risultati più o meno verosimili. Una delle teorie che ormai sono entrate nella storia per vari motivi è senza dubbio quella che espose Umberto Eco nel lontano 1961, quando la tendenza dei quiz era ancora alle sue origini, nella sua “Fenomenologia di Mike Buongiorno”  contenuta nel “Diario Minimo”. All’interno di questo saggio Eco dice testualmente:

“L'uomo circuito dai mass media è in fondo, fra tutti i suoi simili, il più rispettato: non gli si chiede mai di diventare che ciò che egli è già. In altre parole gli vengono provocati desideri studiati sulla falsariga delle sue tendenze”

In pratica l’uomo che segue i mass media in generale è portato a farlo poiché gli viene proposto un esempio, un modello se vogliamo, da seguire che non solo è perfettamente alla sua portata ma è addirittura egli stesso. Alla luce di questo l’individuo non dovrà nemmeno sforzarsi di diventare o assomigliare a qualche superman ma gli basterà puntare a rimanere quell’everyman che è già di suo. Eco prosegue nella sua spiegazione esemplificando questo pensiero nella figura di Mike Buongiorno:

“ Idolatrato da milioni di persone, quest'uomo deve il suo successo al fatto che in ogni atto e in ogni parola del personaggio cui dà vita davanti alle telecamere traspare una mediocrità assoluta unita (questa è l'unica virtù che egli possiede in grado eccedente) ad un fascino immediato e spontaneo spiegabile col fatto che in lui non si avverte nessuna costruzione o finzione scenica: sembra quasi che egli si venda per quello che è e che quello che è sia tale da non porre in stato di inferiorità nessuno spettatore, neppure il più sprovveduto. Lo spettatore vede glorificato e insignito ufficialmente di autorità nazionale il ritratto dei propri limiti”.

Ed infine conclude: “  Nessuna religione è mai stata così indulgente coi suoi fedeli. In lui si annulla la tensione tra essere e dover essere. Egli dice ai suoi adoratori: voi siete Dio, restate immoti.”

Che sia proprio questo il punto forte di personaggi quali (al giorno d’oggi) Gerry Scotti, Bonolis, Amadeus, Conti e tutti gli eredi del compianto Mike e dei loro quiz? In parte è innegabile. La formula per cui non è necessario conoscere in modo dettagliato un download (2)argomento per poter rispondere correttamente alla domanda fa gola a molti e sembra alla portata di tutti noi spettatori. Certo è vero che conoscere in modo esauriente tutta la sfilza di tematiche su cui i concorrenti sono messi alla prova nei vari format è impossibile, ma a molte voci fuori dal coro sostengono che mercificare la cultura, a loro parere,  “spicciola” in questo modo abbia del ridicolo. Premiare con milioni di euro personaggi che, e non è cosa rara, riescono a superare alcune questioni persino sparando a caso la risposta per l’ansia che gli causa l’esaurirsi del tempo a disposizione per rispondere fa capire quanto di culturale ci stia dietro spesso. Se questo è contestabile per i quiz in cui si hanno delle domande lo è totalmente per spettacoli quali “Affari tuoi”, sempre su rai 1, nei quali è solamente il caso a decidere quale sarà la vincita. Se è per questo c’è chi potrebbe contestare che la stessa logica si ha nel gioco del lotto, di cui nessuno si lamenta e che vanta anch’esso milioni di giocatori: onestamente però la questione mi pare differente poiché se da una parte è vero che entrambi sono esclusiva dello stato, in quanto uno è sulla rai (tv di stato) e l’altro è un monopolio,  i pacchi ci costano e basta (visto che li paghiamo col canone), mentre il lotto ha vincite molto più rare e soprattutto si ripaga ampiamente con i suoi stessi incassi oltre al fatto che se non voglio posso benissimo non giocare (non possiamo dire lo stesso del canone che ci tocca pagare).

Dopo aver assistito a una puntata di un quiz qualsiasi:prendiamo per esempio “Chi vuol essere milionario”, facendo finta che in una sola puntata un concorrente arrivi all’ultima domanda, si hanno ben 15 nozioni , anzi considerando che le prime 5 il più delle volte sono già in nostro possesso, facciamo 10 nozioni di cultura generale in più a nostra disposizione a fine trasmissione, ma è davvero così? Ci ricordiamo davvero di tutte queste cose? Il più delle volte la risposta è negativa e questo perché senza un’adeguata motivazione e spiegazione difficilmente acquisiamo nuove conoscenze in modo duraturo, al più ricorderemo le curiosità che riguardano il nostro campo di interessi e che già prima della trasmissione eravamo vicini a sapere. Se osserviamo nella fattispecie “Il milionario” visto il numero di domande abbastanza basso e la grande quantità di tempo a disposizione spesso vengono date delle spiegazioni delle risposte, ma sono sempre piuttosto superficiali (per limiti di tempo chiaramente). Il presentatore riferisce due o tre dati che gli comunica la produzione che vanno a esplicare il perché è corretta tale risposta alla domanda ma non si addentra in particolari poiché allo spettatore forse non interessa conoscerli veramente e di conseguenza nemmeno a lui che va a rappresentarlo. Ancora una volta ci torna d’aiuto Umberto Eco: “Mike Bongiorno non si vergogna di essere ignorante e non prova il bisogno di istruirsi. Entra a contatto con le più vertiginose zone dello scibile e ne esce vergine e intatto, confortando le altrui naturali tendenze all'apatia e alla pigrizia mentale. Pone gran cura nel non impressionare lo spettatore, non solo mostrandosi all'oscuro dei fatti, ma altresì decisamente intenzionato a non apprendere nulla…Non manca di informarsi sulle stranezze dello scibile (una nuova corrente di pittura, una disciplina astrusa... "Mi dica un po', si fa tanto parlare oggi di questo futurismo. Ma cos'è di preciso questo futurismo?"). Ricevuta la spiegazione non tenta di approfondire la questione, ma lascia avvertire anzi il suo educato dissenso di benpensante. Rispetta comunque l'opinione dell'altro, non per proposito ideologico, ma per disinteresse.”

Va ricordato che queste considerazioni di Eco, come egli ha più volte ricordato, si riferiscono al personaggio di Buongiorno e non certo all’uomo, che egli non conosceva nemmeno e che soprattutto merita rispetto per come l’abbiamo conosciuto; si deve tenere presente inoltre che lo prendiamo d’esempio solo perché è il padre dei nostri presentatori di quiz e perché a egli si ispirano tutti quelli di oggi, non certo per antipatia o per accanimento.

Sembra dunque che i quiz non presentino cultura vera e propria in quanto non risultiamo più colti o istruiti dopo averli guardati, ma questo è esattamente quello che noi stessi vogliamo. In fin dei conti non accendiamo la tv dopo una giornata di lavoro, studio o fatica per apprendere attraverso di essi quanto più possibile: se mai abbiamo bisogno di puro intrattenimento e probabilmente in questo non c’è nulla di male. Due risate per le battute del presentatore, un’altra per la bizzarria del concorrente del momento o per la sua disarmante impreparazione e qualche curiosità che per più o meno tempo ci rimarrà in mente: niente di più e niente di meno, solo questo. Non impareremo quello che attraverso le nostre esperienze di studio non siamo riusciti ad apprendere ma ci guadagneremo forse in divertimento.

Nessuna religione è mai stata così indulgente coi suoi fedeli.

 

 

[caption id="attachment_117" align="alignright" width="150"]Mike Buongiorno: il padre del quiz tv italiano. Mike Buongiorno: il padre del quiz tv italiano.[/caption]

mercoledì 10 aprile 2013

Una fortuna pericolosa

Per il secondo appuntamento della nostra cara rubrica letteraria torniamo ancora una volta in Inghilterra per rendere omaggio a un maestro riconosciuto del romanzo moderno (per come esso ha stabilizzato la sua struttura nella seconda metà del 900): sto parlando di Ken Follett e del suo “Una fortuna pericolosa” del 1993.

[caption id="" align="alignnone" width="150"] La copertina del romanzo[/caption]

Ci troviamo appunto nell’Inghilterra vittoriana a seguire le vicende di una famiglia tra le più abbienti dell’intero regno: i Pilaster, e dei loro numerosi amici e conoscienti. I due cugini Hugh ed Edward Pilaster, mentre svolgono il college presso una struttura di assoluto prestigio si trovano coinvolti nella morte di un altro studente, da questo momento le loro vite sono destinate a cambiare completamente. Edward sembra essere il colpevole mentre il cugino ha assistito parzialmente all’omicidio del ragazzo; grazie alla testimonianza (che appare immediatamente falsa) da parte del suo migliore amico il rampollo dei ricchi banchieri è salvo dal tragico futuro che sembrava profilarglisi. Come se questo semplice fatto non fosse sufficiente, a mettere l’uno contro l’altro i 2 rami della famiglia Pilaster (appunto quelli dei due cugini) ci si mettono anche le vicissitudini dei loro padri, i quali pur essendo fratelli non sono in buoni rapporti da diverso tempo in quanto quello di Hugh ha lasciato la banca di famiglia per aprire un’azienda in proprio. A causa della difficile crisi economica gli affari non gli vanno affatto bene e arriva a suicidarsi, abbandonando inevitabilmente il figlio a una vita assai difficile tra la carriera nella banca di famiglia in cui è ostacolato perché intraprendente e sveglio (al contrario di suo cugino che passa le giornate tra sbronze e bordelli) e la convivenza con gli zii e Edward, che non perdono mai occasione per ricordargli la sua estraneità. Miguel Miranda, il ragazzo che testimoniando il falso ha salvato la vita a il rampollo dei Pilaster, gode di enorme riconoscenza da parte della famiglia e in modo particolare dalla madre del suo amico, per cui prova un misto tra attrazione e paura, e grazie a questa riuscirà per diversi anni a sopravvivere come parassita (pur essendo discretamente ricco di famiglia) della ricchezza dei banchieri. La signora Pilaster, oltre a una simpatia evidente per Miguel ha illimitate aspirazioni di potere per il marito e quindi indirettamente per lei e di conseguenza  per tutto il corso della vicenda cercherà di muovere nelle sue mani eventi e personaggi come marionette tra omicidi e lobbismo. I soldi dei Pilaster però non dureranno per sempre sotto le spese inoculate di Edward e dell’amico senza scrupoli, così come il mistero riguardo l’omicidio del loro compagno di college è destinato a tornare a galla…

Non violeremo il sacro comandamento di Martin Morton che ci vieta di rivelarvi il finale di film e libri, non vi preoccupate!

Oltre alla trama di questo thriller magistrale (tanto da essere considerato il capolavoro di Ken Follett insieme a “I pilastri della terra”) non vi basta allora vi dico che presenta uno spaccato della realtà dell’Inghilterra vittoriana che semplici libri di storia non ci hanno mai saputo dare: quella fatta di perbenismo e puritanesimo alla luce del sole ma che non appena questo cala mostra i peggiori lati dell’animo umano quali bordelli, bische clandestine, loschi affari con paesi dove vige ancora la schiavitù e quanto di spregevole si può pensare. Il racconto, che segue quasi durante tutta la sua vita il protagonista Hugh, racconta la sua storia d’amore con una ragazza di umili origini, con la quale dovrà rinunciare a sposarsi per l’impedimento della zia, ma con cui continuerà i rapporti. E certo, ovviamente racconta anche  il funzionamento di una banca d’affari di fine 800 a cui immagino tutti voi lettori freaky siete interessati.

Nel complesso il romanzo è molto coinvolgente, uno di quei thriller da cui non ci si vorrebbe mai staccare e che nel momento il cui non lo si sta leggendo ci tiene comunque con lui con la mente grazie alla sapiente struttura con cui  ha saputo condirlo Follett oltre che la semplicità del suo stile che rende così nitide le scene per il lettore.  Un riassunto o una semplice recensione non sono forse in grado di riassumere la grandezza di questo romanzo, fatto di tantissimi personaggi e chiaramente di altrettante vicende che portano Hugh a trasferirsi per un anno negli emergenti Stati Uniti per esempio e in seguito Miguel a tenere i difficili rapporti con il padre, che teme e disprezza per la sua autorità e il suo continuo ricorrere alla violenza per accrescere il proprio potere in sud America.

Leggere “Una fortuna pericolosa” può essere un ottima porta di entrata nel mondo di Ken Follett e dei suoi tantissimi romanzi colmi di tensione ma anche di storie umane certo, può essere una conferma dell’abilità di questo romanziere per chi ha già avuto modo di leggerlo, può essere un’occasione per appassionarsi al genere attraverso uno dei suoi maggiori esponenti, può essere un’ottima lettura, un’enorme perdita di tempo…no ecco questa magari no.

“Quanto più, col passare del tempo, talune esigenze di divertimento e di istruzione di massa potranno essere soddisfatte mediante altre invenzioni, tanto più il libro riacquisterà dignità e autorità”.

Hermann HesseScritti letterari I, 1972 (postumo)

[caption id="" align="alignnone" width="150"] Ken Follett in un momento freaky[/caption]

 

 

 

 

 

martedì 9 aprile 2013

Perché non un mondo senza armi?

In questo sprazzo di riflessioni riguardanti l'attualità si è voluto parlare di armi, il mezzo con cui l'uomo pretende d'essere superiore a un suo simile. Perchè l'arma non è solo un oggetto atto alla difesa o all'offesa della persona ma è molto di più, è una tipologia di violenza forgiata dall'uomo distinta e diversa da quelle di ogni altro animale. Quando ci siamo accorti che la sola forza fisica non ci bastava a dominare chiunque si è attivata la nostra pregiata ragione inventando prolungamenti del corpo, prima semplici e ancora correlati alla forza fisica (come pugnali, lance o spade) poi via via sempre più complessi e sofisticati (pistole, fucili, mitra..). Insomma una continua ricerca dell'arma migliore, quella più efficace per dimostrare la propria superiorità, il proprio dominio. L'uomo, creatura subdola, manipola poi questa superiorità acquisita grazie all'arma e la trasforma in violenza, in terrore e molto spesso in reato. Vignetta E' evidente, è persino logico, che chi ha una pistola in mano è più forte di chi ha un coltello tra le dita o che "un uomo con la pistola che incontra un uomo con un fucile è un uomo morto" citando Sergio Leone. Ci si arriva a chiedere quindi se un domani si potrà vivere in un mondo senza armi. Se tutti siamo d'accordo che le armi e la violenza da esse portate siano una patologia da guarire perchè continuano a esistere? Perchè sono necessarie, e tutto ciò di cui l'uomo necessita se lo crea, ogni suo capriccio può essere accontentato grazie al suo intelletto. Quando gli venne lo sfizio di andare sulla luna si costruirono le astronavi. Allo stesso modo il primo uomo ritagliò la pietra e ne fece una lancia per togliersi lo sfizio di vedere un uomo che muore.
Le armi servono e serviranno sempre per le guerre, per il mantenimento dell'ordine, per l'autorità della legge...ma quando i danni da esse provocati hanno colpito la gente comune, quei cittadini che erravano nel benessere della modernità, quelli lontani da guerre, fame o disordini pubblici, ci si è accorti di quanto le armi siano cattive. Dopo che nascono i prepotenti, gli approfittatori, i ladri, gli assassini si pensa a come rimediare. Allora ecco arrivare le leggi; se vuoi un'arma dobbiamo prima sapere tutto di te e porre comunque un serio freno alle tue deviate fantasie. In Italia per aquistare un'arma bisogna procurarsi un documento nulla osta, rilasciabile dalla questura di circoscrizione, e dopo aver denunciato l'aquisto dell'arma la si può conservare solo e soltanto nella propria abitazione. Si può possedere fino a un massimo di tre pistole comuni da sparo, sei sportive e 8 artistiche o da collezione. Per il trasporto poi di suddette armi è necessario il porto d'armi anch'esso rilasciabile dopo gli accertamenti della questura a qualsiasi cittadino. Moltissimi ultimamente, data la singolare ondata di violenza che si è abbattutta sulla società durante questa crisi, si lamentano della superficialità prima delle leggi e poi delle questure e della facilità con la quale chiunque, con un pò di pazienza, può possedere un arma, compresi i potenziali psicopatici che stanno leggendo. A me viene da dire che se il mio vicino ha una pistola allora la voglio anch'io, giusto per non rischiare di rimanere fregato, ed è così che parte quel circolo vizioso che ha reso le armi tanto necessarie. Io credo che la società non sia arrivata ad un livello di maturità morale tale da rendere le armi superabili. Credo anche che le leggi siano superficiali si, ma che attraverso questa superficialità che crea tantissimo dolore inutile, le persone conosceranno il male che può fare un'arma. Difficile poi predirre se questo (la realtà violenta e malata in cui siamo immersi e che le persone stanno imparando a conoscere) porterà a sensibilizzare le loro coscienze o ad accrescere quel circolo vizioso che vede le armi trionfatrici. Quando tutti preferiranno essere sparati che sparare allora si che le armi non solo non saranno più un problema ma non saranno neanche più necessarie. Quindi francamente la vedo dura poichè forse anche il papa preferirebbe sparare.
Con diverso tatto stanno affrontando il discorso negli stati uniti e trovo giusto citare la campagna anti-armi che ha voluto intraprendere Obama rendendola un punto cardine del suo secondo mandato. Le coscienze sono state scosse da un dramma che ha del surreale; lo scorso Dicembre si è consumata la tragedia di Newtown, cittadina dl basso Connecticut descritta da un genitore del luogo come il posto più ridente d'America. Un ragazzo, psichicamente instabile a detta del fratello maggiore, ha fatto irruzione nella scuola elementare di Sandy Hook sterminando un'intera classe di bambini tra i cinque e i dieci anni e chiunque si mettesse sulla sua strada compresi preside e psicologo della scuola. Dopo 27 omicidi si è tolto la vita, in nome di cosa lo sa solo lui. Un evento sconvolgente per la sua assurdità; e ancor più assurdo è pensare che episodi del genere accadono periodicamente nel tempo. L'America scossa ha cominciato a immaginarsi senza armi, a capire che tanto dolore non era necessario.

[caption id="attachment_108" align="alignright" width="150"]Sollecitazione di un giovane cittadino Sollecitazione di un giovane cittadino[/caption]

Durissimo il presidente Obama a sfidare apertamente la potente lobby delle ari americana, la NRA, che riscuote consensi tra i repubblicani ma anche da una cospicua fetta di democratici. Obama ricorda che certe cose non le vediamo oggi per la prima volta, che la violenza delle armi ha raggiunto il limite e che, prima di parlare da presidente, parla da genitore incredulo. Incredulo che a bambini di 5 anni con infinite prospettive di vita davanti, venga tolta qualsiasi scelta. Diritti alla vita strappati troppe volte insensatamente.

lunedì 8 aprile 2013

Upside Down (6/10)

Si torna al cinema qui al Freaky Times! Proprio negli ultimi giorni in cui lo stanno proiettando nelle sale italiane eccoci qui a parlare di “Upside Down”:un film firmato dall’argentino Juan Solanas alla sua quarta fatica cinematografica. Forse qualcuno di voi si chiederà o lamenterà del fatto che arriviamo a recensirlo così tardi rispetto alla sua uscita (28 febbraio 2013) e qui la nostra risposta arriva pronta quanto stizzita: il magnifico Martin Morton ci paga stipendi troppo miseri per permetterci di andare al cinema a piacimento, tanto meno ora che andarci è diventato un passatempo da veri e propri nababbi. Salutandovi cordialmente ( poiché sono convinto che dopo questa denuncia pubblica delle nostre paghe da fame Mr.Morton non mi lascerà vivere oltre) mi accingo a raccontare il sudato film.

Due pianeti di un indefinito Universo simili alla Terra. Uno in posizione opposta all'altro tanto da fargli sostituto della volta stellata. Ognuno con la propria forza di gravità e con un'enorme colonna/grattacielo (opera della Transworld, società impegnata nello sfruttare le risorse del pianeta che sta sotto) che li collega. Nessun abitante dei due mondi può incontrare direttamente chi vive nell'altro e ogni oggetto che proviene da uno dei due mondi, dopo una brevissima presenza nell'altro, inizia a essere sottoposto a un processo di combustione, finendo per bruciare. Il giovane Adam, che vive nel disastrato pianeta di sotto, un giorno si reca in un luogo proibito situato in alta montagna, là incontra (ovviamente a testa in giù) la coetanea Eden. Il passo dall'amicizia all'amore proibito è breve. Finché un giorno i due, che nel frattempo sono riusciti ad ingegnarsi per incontrarsi sullo stesso mondo tramite dei contrappesi,  vengono scoperti e nella concitazione, Eden cade battendo la testa. Adam, dopo che le autorità li hanno separati con la forza, si convince che sia morta e cade nella disperazione. La vita nel mondo di sotto, a cui il giovane appartiene, è assai dura poiché si trova in una situazione di totale povertà e sfruttamento da parte del mondo di sopra, nel quale invece le cose vanno molto meglio. Attraverso una particolare ricerca fatta su un miele prodotto da api che vivono tra i 2 mondi Adam riuscirà a farsi assumere nell’azienda responsabile di tutta l’economia e situata nella torre che collega i pianeti. Questo incarico metterà il ragazzo in contatto con persone del mondo di sopra tra cui la stessa Eden, la quale però ha dimenticato tutta la loro storia d’amore in seguito alla botta in testa subita anni prima. Nel corso della storia Adam fa di tutto per far tornare alla mente dell’amata la loro infanzia insieme: compreso recarsi nel mondo a lui proibito con conseguenze tragicomiche.
Visto in questi semplici termini riassuntivi il film stupisce per la trama estremamente particolare e fantasiosa, certo, per quanto riguarda la stranezza dell’universo a pianeti “gemelli” in cui i protagonisti vivono, peraltro sottoposto a tutte queste leggi fisiche bizzarre e ostili ai contatti tra i due. Se ci riflettiamo un attimo però il filo conduttore della storia ricorda la tipica vicenda di amore proibito tra giovani innamorati, che già quel vecchio bardo di Shakespeare aveva raccontato secoli prima. La grandezza di Juan Solanas, qui regista e sceneggiatore, sta tuttavia nel proporre la trama in termini fiabeschi e surreali, anche con l’aiuto delle atmosfere tra i film di Tim Burton e il telefilm (purtroppo sconosciuto ai più) “Pushing Daisies” (tradotto in italia col nome “il fabbrica torte”). In questo senso è chiaro fin da subito che la produzione della pellicola non è made in Hollywood ma bensì franco-canadese: le atmosfere del mondo di sotto ricordano paesaggi tipici di altri film transalpini quali per esempio “Perfume: The Story of a Murderer” del 2006 (in Italia “Profumo: storia di un assassino”) anch’esso francese in parte. I protagonisti inoltre risultano interpretati in modo perfettamente centrato da Kirsten Dunst e Jim Sturgess.

Nonostante non sia nostra intenzione rivelare il finale del film, rovinandone dunque la visione, è bene che vi si metta in guardia da alcune caratteristiche che lasciano per lo meno perplessi: alla fine della pellicola ci si trova infatti con diversi interrogativi irrisolti. La vicenda si chiude perfettamente nel suo senso generale ma l’amaro in bocca resta principalmente per ciò che si da per scontato avvenga verso la fine della proiezione ma che in effetti non ci viene mostrato. Abbiamo negli ultimi 10 minuti del film un salto, un buco di trama che ci porta direttamente dal problema di fondo dell’intero filo narrativo e dalla massima tensione a un’istantanea svolta che risolve la vicenda come per magia. Nell’ultima scena in particolare si lasciano intravedere sviluppi del tutto inattesi per la storia nella prospettiva futura. Considerando la complessità della trama e delle regole fisiche e morali a cui lo spettatore dev’essere introdotto nell’entrare nell’universo dei mondi di sopra e di sotto non è strano comunque che il regista abbia optato per dei tagli al fine di non rendere la pellicola troppo lunga e noiosa. Il risultato è che la trama in genere e le atmosfere rimangono di primo livello, anche se la prima poteva forse essere sviluppata in modo più completo.

Romeo e Giulietta, atmosfere fiabesche e perché no persino un pizzico di distopia rendono Upside Down un ottimo intrattenimento prima di tutto (come è giusto che sia) e in secondo luogo sicuramente  degno della vostra visione!

[caption id="attachment_99" align="alignleft" width="150"]La locandina del film La locandina del film[/caption]

venerdì 5 aprile 2013

Sognando l'America!

American life, american style, american history, american beauty, american idol, e chi più ne ha più ne metta. Perché in fondo siamo tutti grandi estimatori del paese delle opportunità, della più grande democrazia della terra, della nazione più potente del mondo. Noi che ormai 500 anni fa quella terra l'abbiamo scoperta, noi che l'abbiamo abbellita lasciando in america circa 20 milioni di discendenti italiani ci ritroviamo spesso a sognarla e ancor più spesso ci ritroviamo a chiederci come sarebbe vivere lì tra il monte Rushmore e il gran Canyon, tra Broadway e Hollywood, tra la statua della libertà e lo space needle, magari attraversando la route 66 con una palla di fieno che ti sfreccia accanto e il vento tra i capelli.
Ma tralasciando tutte le bellezze che rendono questo paese il primo al mondo per immigrazione e turismo intercontinentale cosa effettivamente sappiamo della cultura e della vita americana? Insomma se domani io mi svegliassi con l'impulsiva voglia di aquistare una roulotte e andar a vivere ai margini di una tavola calda in Kansas, cosa mi dovrò comportare per essere americano? E' chiaro che questa domanda non avrebbe potuto avere risposta se non esistesse lei, madre e amica, sorella ed educatrice, comprensiva e fedele, semplicemente la televisione.
Quando tanti anni fa un giovane Mister Morton lasciava la sua Louisiana per intraprendere il suo viaggio formativo lungo il mondo non ipotizzava nemmeno che la sua patria potesse lanciare un'immagine tanto chiara e tanto forte di sè attraverso la televisione. Tra CBS, BBC, FOX etc. le trasposizioni televisive dell'"american life" sono migliaia. Non potendo, putroppo o per fortuna, apprezzare appieno la tv americana, i loro show ( come quello di Letterman o della grande e grossa Oprah, chissà se sono ancora vivi) a causa di problemi di comprensioni o limitazioni satellitari, tutto ciò che sappiamo dell'america la sappiamo grazie alle loro serie televisive ma soprattutto allle loro sit-com, quintessenza dell'arte televisiva. Già perché se nei telefilm variano in continuazione temi e ambientazioni ( i migliori sono comunque quelli per ragazzine in calore tipo Oc o Dawson's Creek) nelle sit-com (che usano poche scenografie, ambienti riccorenti e risolvendo ogni questione già alla fine della puntata) lo sfondo sempre presente è quello della vita americana, vissuta da americani, spostandosi da Chicago a New York o da Quoagh a Springfield.

[caption id="attachment_95" align="alignleft" width="150"]Digitando su google "americano medio" Digitando su google "americano medio"[/caption]

E diciamocelo se da Lisbona a Berlino incontri mille culture, mille lingue, mille diverse cucine, da Los Angeles a Washington troverai sempre lo stesso tipo grassoccio intento a trangugiare hamburger e patatine e a scolrasi una coca-cola con la il suo slang inglese.
Un genere, quello dell sit-com, che compare già in radio, in una trasmissione di Chicago del 1926, e che poi approdato in televisione ha seguito quest'ultima durante tutto il suo sviluppo. Ne esistono di svariati sottogeneri, ad esempio c'è il medical Scrubs, spassosa e spettacolare rappresentazione dell'ambiente ospedaliero frequentato da personaggi che hanno tutti bizzarre particolarità. Poi ci sono quelle come Friends o il suo degno erede How I Met Your Mother, che riescono ad analizzare e scavare in sentimenti profondi come l'amicizia e l'amore senza mai dimenticarsi di far ridere a crepapelle. Ce ne sono moltissimi che andrebbero citati, ma francamente mi sto stufando.
Comunque poche sono state le svolte nel mondo della sit-com familiare, quella sull'americano medio come Tutto in famiglia o La vita secondo Jim per intenderci; la più importante è stata sicuramente quella di Happy Days, andato per la prima volta in onda nel 1974. Si ha per la prima volta un programma di successo nazionale e internazionale che tratta le avventure di una famiglia borghese di Milkwakee costituita da un padre, una madre e due figli nel pieno dello sviluppo adolescienziale. Marito lavoratore e moglie casalinga figli studenti e stravaganti amici di famiglia che rendono divertente qualsiasi avvenimento, su tutti ci ricordiamo Fonzie, icona di mascolinità per decenni. Uno schema sceneggiativo (quello della famiglia alla Happy days) che non sarà mai più abbandonato in questo genere di serie. L'altra grande svolta nel livello di comicità e di approfondimento a 360 gradi della vita americana la si ha nel 1989, con la nascita dei Simpson, definita dal Time "la miglior serie televisiva del secolo". Una serie che ci ha fatto affezionare ai personaggi, ai loro difetti e soprattutto al loro stile di vita. Già perché l'inettitudine e la mediocrità del protagonista Homer non gli impediscono di vivere una vita comunque felice e piena lasciando che l'America, attraverso le sue opportunità, gli renda più di quanto lui effettivamente meriti.

[caption id="attachment_96" align="alignleft" width="150"]La famiglia americana ne "I Simpson" La famiglia americana ne "I Simpson"[/caption]

La puntata emblema della serie è sicuramente quella in cui compare il lavoratore perfetto Frank Grimes, ragazzo umile e che si è ftto da solo, grazie a fatica e costanza me che non è mai riuscito a raggiungere la qualità di vita desiderata. Tutto ciò viene messo in contrasto con la vita di Homer, uomo semplice, tracagnotto e ignorante che però ha una bella moglie, tre figli (Bart in quel momento era anche proprietario di una fabbrica "giù in città"), una grande casa, due auomobili e "aragosta per cena". Frank Grimes non riesce a concepire ciò, a concepire che esista un mondo che sembra girare al contrario dove fatica e razionalità non ti aiutino a raggiungere nessun obiettivo e invece la stupidità, l'incoscenza e l'impreparazione professionale ti portino alla felicità. Ecco l'idea che almeno io ho della vita americana, una vita dove i problemi esistono ma dove ti è permesso affrontarli con leggerezza, quasi spensieratezza affidandoti alla certezza che affaticarsi non porti da nessuna parte. La moglie, i figli, il lavoro, le bevute con gli amici, cercare di arrivare a fine mese, magari quella di Homer sembra una vita monotona e incompleta ma che invece riesce a regalare centinaia di soddisfazioni (520 errotti se non ho fatto male i calcoli), soddisfazioni che altre vite non regalerebbero. Ma nella vita americana non c'è solo questo, c'è uno speciale e approfondito legame familiare, i rapporti interfamiliari, quelli con religione, scienza, politica, denaro...Tutti gli aspetti possibili della quotidianità di un americano medio sfidano i simpsons avventura dopo avventura e da queste sfide Homer ne esce sempre vincitore. Ecco perché a me come a molti altri piacerebbe vivere al posto suo.

giovedì 4 aprile 2013

C'è anche l'Europa League!

Ed ecco finalmente lo spazio occupato con merito dal divino sport. Questa è la settimana in cui persino il time, rivista più letta negli states, ha riconosciuto a Balotelli di essere tra le 100 personalità più influenti del pianeta mettendolo quindi sul piano di altri calciatori come Beckham o Messi ma anche sul piano di personaggi come Obama o Bill Gates, tutti nella lista. Complimenti a Mario, non si sà ancora bene per cosa, ma complimenti a Mario, un ragazzo ormai divenuto uomo.

[caption id="attachment_88" align="alignleft" width="150"]The meaning of  Mario. Mah The meaning of Mario. Mah[/caption]

Questa è la settimana di Champions, finalmente giunta nel vivo, nel momento in cui i campioni sono obbligati a diventare protagonisti e le squadre devono essere costantemente perfette. Bene il Real Madrid con una netta vittoria sui turchi di Faty Therim, sfortunato il Borussia Dortmund che sembra comunque essere favorito e superiore al Malaga di Pellegrini. Tutto aperto tra Barcellona e PSG che ha dimostrato una compattezza inaspettata, tutto aperto a meno che il Barcellona non esibisca un ennesimo show di calcio. Peccato per la sconfitta pesante a Monaco della Juventus, 2-0 col Bayern, che però non può ridimensionare nè gli obiettivi nè la convinzione nella propria qualità e nella propria forza della squadra. Una Juve che in Baviera è stata subito sfortunata (subendo il rocambolesco gol di Alaba dopo 27 secondi) e che ha pagato la prestazione praticamente impeccabile degli avversari, che essendo costituiti da una serie di giocatori tattici, intelligenti e immensamente talentuosi (basti pensare a Lahm, Neuer, Ribery, Muller...) è riuscita attraverso il possesso palla preciso, la straordinaria intensità nel pressing e l'organizzazione ad annullare qualsiasi punto di forza dei bianconeri e ad accentuarne i punti deboli. Il ritorno, come dire, è difficile, non impossibile.
Forse nessuno si ricorda che questa è la settimana della snobbatissima Europa League e visto che spesso ci si dimentica che esiste anche questa competizione ci è sembrato doveroso occuparci di lei, prendercene cura come dando un pezzo di pane a un barbone, insomma il tipico atteggiamento solidale di TheFreakyTimes.
Oggi quasi mi vergogno a dire che un paio di settimane fa una donna, creatura che non si capisca perché si ostini a voler capire qualcosa di calcio, mi chiese cosa fosse l'Europa League ed io semplicisticamente risposi: "Sai, tipo la serie b della champions." Ovviamente non ci si può limitare a questo per definire la ex-coppa UEFA. E' un torneo ricco di fortissimi singoli, di squadre blasonate e allenatori preparatissimi. Per fare un paio di esempi concreti basta pensare che ai quarti ci sono arrivati giocatori come Cech, Bale, Hazard, Lennon o allenatori del calibro di Benitez o Villas Boas ( si so che sono tutti di Totthenam o Chelsea ma ci sono molte altre squadre valide...). Tutte le squadre arrivate ai quarti non hanno mai vinto questo trofeo e quindi sarà una sfida viva partita dopo partita, fino alla fine, una fine che prevedo equilibrata e appassionante. La logica favorita è il Chelsea, non solo perché sono i campioni d'europa in carica, ma anche per la loro solidità di gioco e del gruppo, senza dimenticare la prolificità dei suoi attaccanti; e poi si sà in queste competizioni è fondamentale l'esperienza, però stiamo attenti a non sottovalutare la sfortunata tradizione che hanno i grandi club in questo tipo di tornei. Pur

[caption id="attachment_87" align="alignleft" width="150"]Per non dimenticare l'Europa league Per non dimenticare l'Europa league[/caption]

troppo anche l'altra squadra italiana impegnata in Europa, la Lazio, ha perso, è successo a Istambul, un 2-0 di una partita che finirà sicuramente nell'album dei rimpianti. Una Lazio che è partita bene, provando a tenere palla giocando a viso aperto, ma poi è mancata la continuità di prestazione e una piccola dose di disattenzione ha regalato la partita al Fenerbache. Dopo un pò di fortuna, due pali colpiti dai gialloneri, sono arrivati gli episodi sfavorevoli. Prima l'idiozia di Onazi espulso, con il primo fallo da giallo che era evitabile e un secondo completamente assurdo, soprattutto sapendo di essere già ammonito, che non farebbe neanche uno che non sa le regole. Poi lo sciagurato intervento dell'arbitro che assegna calcio di rigore ai turchi per un fallo di mano di Radu che, è vero, è saltato in maniera pericolosa ma non stava nemmeno guardando il pallone, che tra l'altro viene lanciato sul suo braccio da un colpo di testa avversario, poi se anche Billy Costacurta dice che un difensore quando salta tende sempre involontariamente ad alzare le braccia, allora ci credo. L'errore poi di Marchetti, che respinge male una punizione dai 25 metri permettendo a Kuyt di mettere dentro con un facile tap-in, fissa il risultato sul 2-0. Score che però non può far perdere la speranza alla Lazio che al ritorno, anche senza l'aiuto del suo pubblico, ha tutti i mezzi per ribaltare gli equilibri e riagganciarsi alla qualificazione. Lunedì prima c'è il derby, e aspettando di sapere se il papa preferisce la Roma o la Lazie, ci auguriamo che queste due squadre regalino grande spettacolo alla serie A.

mercoledì 3 aprile 2013

Whatever people says I'm that's what I'm not! (8/10)

Per la serie “album che consacrano un gruppo” del nostro appuntamento musicale oggi parliamo di un disco capace di riscuotere un successo di vendite sorprendente considerando che si tratta il primo per la band in questione. Con un totale di  363,735 copie vendute nella sola prima settimana dall’uscita si piazza nel Guinness dei primati distruggendo dopo 12 anni il record degli Oasis con “Defenetly Maybe”: oggi parliamo ovviamente degli Arctic Monkeys e del loro “Whatever people say I am that’s what I’m not“ del 2006.

Prendete quattro ragazzi normali della periferia di Sheffield, che appena imbracciano gli strumenti o si fiondano dietro alla batteria sono in grado di generare riff velocissimi e travolgenti trasformandosi in vere rock star. Prendete un frontman, Alex Turner,  che suona la chitarra e compone le sue linee vocali in modo del tutto singolare alternando parti parlate, strofe urlate e frasi di decine di parole compresse in un singolo verso. Prendete un batterista che, pur avendo dichiarato di essersi dedicato allo strumento solo perché gli altri erano già tutti occupati, riesce a dare un tocco di colore e adrenalina anche partendo dai giri di chitarra più tranquilli. Prendete i giovani inglesi che li hanno già ascoltati per diverso tempo mentre giravano il paese in modo indipendente, diffondendo gratis la loro musica attraverso un cd di 5 minuti registrato “da loro” e che non vedono l’ora di ascoltarli in un vero e proprio disco. Prendete tutto ciò e avrete una descrizione comunque sbiadita di cosa sono gli Arctic Monkeys: per capirli bisogna vederli suonare live, magari anche solo su un video raccattato su youtube ma che sia live!

Pur essendo realizzato in studio il cd incarna perfettamente quello che le “scimmie artiche” erano nel 2006 musicalmente e non. Il disco parte con “the view from the afternoon “ un pezzo dalla velocità sorprendente con un video oltretutto ben girato e del tutto in linea con quello che trasmette l’ascolto del brano: un singolo dal successo scritto. “I bet you look good on the dancefloor” continua sulla falsariga della precedente con una ritmica forsennata e che, parlando appunto di ciò che si può presentare di fronte a un ragazzo qualunque entrato in una discoteca, sembra persino ballabile. Il pezzo è il primo di quelli con cui la band parte a pubblicizzare l’album e risulta una scelta del tutto azzeccata visti i risultati. “When the sun goes down” è di certo il capolavoro dell’album, capace di trascinare il pubblico ai concerti in modo impressionante specialmente nella parte iniziale in cui Alex canta (o lascia appunto al pubblico questo compito) accompagnato solo dalla sua stessa fender stratocaster nera. La citazione di “Roxanne” dei Police presente nel testo (…”and he told Roxanne to put on the red light”…) sembra essere la ciliegina sulla torta in un brano che parla di uno “scummy man” (uno schifo d’uomo) di periferia.

Ma il disco non è solo questo: è il mix di testo e melodia rock orecchiabile ma di forte impatto che troviamo in “Mardy Bum”, è l’ironia mista a sfottò per quei musicisti un po’ attempati che si fingono rockstar appena c’è da suonare a un matrimonio il sabato pomeriggio, è anche l’antipatia urlata a tutta velocità in “from the Ritz to the rubble” verso quei “ragazzi in nero” che pur di mantenere quella loro finta aria da duri non cederanno mai a cortesie o a una semplice risata. L’ironia che Alex Turner mette nei suoi testi lo catapulta subito nel mondo di quei ragazzi che preferiscono non prendersi troppo sul serio e guardano a ciò che li circonda tra la curiosità e il disincanto, una realtà piuttosto diffusa soprattutto nell’Inghilterra di inizio millennio a giudicare dai milioni di copie che arriva a vendere  il disco.

Gli Arctic Monkeys accelerano, frenano, ripartono più arrabbiati di prima per poi cambiare ancora atmosfere: inediti duetti di chitarra tra Alex Turner e il secondo chitarrista Jamie Cook, giri di basso dalla ritmica influenzata pesantemente dall’ecclettico batterista Matt Helders dallo stile animalesco e incalzante, insomma sembrano quasi inventarsi un nuovo genere, o forse solo sottogenere, di rock. Definirli “Indie” appare tanto riduttivo quanto generico visto quanto questo termine, stando a ciò che dicono i media, significhi tutto, il contrario di tutto, le due cose messe insieme e altro ancora, ma soprattutto per tutte le facce della loro musicalità.

Analizzando sette anni dopo quello che le scimmie artiche hanno messo insieme nei seguenti 3 dischi è allucinante: “Favourite Worst Nightmare” che segue le orme del primo ma con una svolta più distorta e aggressiva, “Humbug” in cui i riff raggiungono livelli di tecnica di gran lunga più elevati e che richiamano addirittura ai black sabbath e infine “suck it and see” nel quale c’è spazio per il garage rock e per diverse ballate. Beh, onestamente per una band in cui i membri non superano i 26 anni direi che immaginare un maggiore eccletticismo sarebbe impossibile.

 

[caption id="attachment_83" align="alignleft" width="150"]La copertina del disco "da record" La copertina del disco "da record"[/caption]