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mercoledì 3 aprile 2013

Whatever people says I'm that's what I'm not! (8/10)

Per la serie “album che consacrano un gruppo” del nostro appuntamento musicale oggi parliamo di un disco capace di riscuotere un successo di vendite sorprendente considerando che si tratta il primo per la band in questione. Con un totale di  363,735 copie vendute nella sola prima settimana dall’uscita si piazza nel Guinness dei primati distruggendo dopo 12 anni il record degli Oasis con “Defenetly Maybe”: oggi parliamo ovviamente degli Arctic Monkeys e del loro “Whatever people say I am that’s what I’m not“ del 2006.

Prendete quattro ragazzi normali della periferia di Sheffield, che appena imbracciano gli strumenti o si fiondano dietro alla batteria sono in grado di generare riff velocissimi e travolgenti trasformandosi in vere rock star. Prendete un frontman, Alex Turner,  che suona la chitarra e compone le sue linee vocali in modo del tutto singolare alternando parti parlate, strofe urlate e frasi di decine di parole compresse in un singolo verso. Prendete un batterista che, pur avendo dichiarato di essersi dedicato allo strumento solo perché gli altri erano già tutti occupati, riesce a dare un tocco di colore e adrenalina anche partendo dai giri di chitarra più tranquilli. Prendete i giovani inglesi che li hanno già ascoltati per diverso tempo mentre giravano il paese in modo indipendente, diffondendo gratis la loro musica attraverso un cd di 5 minuti registrato “da loro” e che non vedono l’ora di ascoltarli in un vero e proprio disco. Prendete tutto ciò e avrete una descrizione comunque sbiadita di cosa sono gli Arctic Monkeys: per capirli bisogna vederli suonare live, magari anche solo su un video raccattato su youtube ma che sia live!

Pur essendo realizzato in studio il cd incarna perfettamente quello che le “scimmie artiche” erano nel 2006 musicalmente e non. Il disco parte con “the view from the afternoon “ un pezzo dalla velocità sorprendente con un video oltretutto ben girato e del tutto in linea con quello che trasmette l’ascolto del brano: un singolo dal successo scritto. “I bet you look good on the dancefloor” continua sulla falsariga della precedente con una ritmica forsennata e che, parlando appunto di ciò che si può presentare di fronte a un ragazzo qualunque entrato in una discoteca, sembra persino ballabile. Il pezzo è il primo di quelli con cui la band parte a pubblicizzare l’album e risulta una scelta del tutto azzeccata visti i risultati. “When the sun goes down” è di certo il capolavoro dell’album, capace di trascinare il pubblico ai concerti in modo impressionante specialmente nella parte iniziale in cui Alex canta (o lascia appunto al pubblico questo compito) accompagnato solo dalla sua stessa fender stratocaster nera. La citazione di “Roxanne” dei Police presente nel testo (…”and he told Roxanne to put on the red light”…) sembra essere la ciliegina sulla torta in un brano che parla di uno “scummy man” (uno schifo d’uomo) di periferia.

Ma il disco non è solo questo: è il mix di testo e melodia rock orecchiabile ma di forte impatto che troviamo in “Mardy Bum”, è l’ironia mista a sfottò per quei musicisti un po’ attempati che si fingono rockstar appena c’è da suonare a un matrimonio il sabato pomeriggio, è anche l’antipatia urlata a tutta velocità in “from the Ritz to the rubble” verso quei “ragazzi in nero” che pur di mantenere quella loro finta aria da duri non cederanno mai a cortesie o a una semplice risata. L’ironia che Alex Turner mette nei suoi testi lo catapulta subito nel mondo di quei ragazzi che preferiscono non prendersi troppo sul serio e guardano a ciò che li circonda tra la curiosità e il disincanto, una realtà piuttosto diffusa soprattutto nell’Inghilterra di inizio millennio a giudicare dai milioni di copie che arriva a vendere  il disco.

Gli Arctic Monkeys accelerano, frenano, ripartono più arrabbiati di prima per poi cambiare ancora atmosfere: inediti duetti di chitarra tra Alex Turner e il secondo chitarrista Jamie Cook, giri di basso dalla ritmica influenzata pesantemente dall’ecclettico batterista Matt Helders dallo stile animalesco e incalzante, insomma sembrano quasi inventarsi un nuovo genere, o forse solo sottogenere, di rock. Definirli “Indie” appare tanto riduttivo quanto generico visto quanto questo termine, stando a ciò che dicono i media, significhi tutto, il contrario di tutto, le due cose messe insieme e altro ancora, ma soprattutto per tutte le facce della loro musicalità.

Analizzando sette anni dopo quello che le scimmie artiche hanno messo insieme nei seguenti 3 dischi è allucinante: “Favourite Worst Nightmare” che segue le orme del primo ma con una svolta più distorta e aggressiva, “Humbug” in cui i riff raggiungono livelli di tecnica di gran lunga più elevati e che richiamano addirittura ai black sabbath e infine “suck it and see” nel quale c’è spazio per il garage rock e per diverse ballate. Beh, onestamente per una band in cui i membri non superano i 26 anni direi che immaginare un maggiore eccletticismo sarebbe impossibile.

 

[caption id="attachment_83" align="alignleft" width="150"]La copertina del disco "da record" La copertina del disco "da record"[/caption]

2 commenti:

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