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mercoledì 26 novembre 2014

"A History of Violence", Cronenberg maestro esistenzialista (7,5/10)

Scorrendo indietro nel tempo, tra gli articoli di cinema che il Fraky ha proposto, ci siamo accorti di non aver mai menzionato un maestro di cinema contemporaneo come David Croneneberg, nè per uno qualsiasi dei film da lui diretti nè per le sue numerose, quanto brevi, apparizioni da interprete, come quando ne "La Mosca" interpretò magistralmente un ginecologo.
Un ebreo ateo classe 1943, nato a Toronto in Canada, Cronenberg si propone come cineasta avanguardista e intellettuale, pronto a spingere all'estremo i mezzi comunicativi della settima arte e sin dai suoi primi talentuosi lavori si comprese quanto un regista del genere potesse aiutare ad evolversi generi stereotipati e ormai stantii. Ma l'approfondimento di horror e fantascienza è solo l'inizio; il Cronenberg dell'ultimo decennio và ben oltre le sue origini ricercando in altri generi una raffinatezza espressiva senza veli e diretta anche ad un pubblico mainstream. Per presentare meglio il vecchio David parleremo oggi di "A History of Violence" (2005), il mezzo cronemberghiano per raccontare l'ambiguità e forse l'illusorietà del sogno americano: un thriller a tinte noir che, se pur ispirato ad un romanzo grafico del 1997 (Una storia violenta), non perde mai lo stile del regista canadese, capace di reggere anche ad Hollywood. loc
La tranquilla vita di Tom Stall, cittadino di Milbrook, Indiana, viene scossa dall'aggressione, alla sua tavola calda, da parte di alcuni banditi che fortunatamente lui riesce ad uccidere prima che potessero creare problemi. Questo lo rende un eroe mediatico e la sua faccia attira la furia di un certo Carl Fogharty, boss della mafia irlandese nell'east-coast. Carl e i suoi scagnozzi arrivano alla tavola calda da Philadephia e per una qualche ragione a noi sconosciuta continuano a rivolgersi a Tom chiamandolo Joey. Fogharty (un sempre monumentale Ed Harris) ha un solo occhio funzionante e vede in Tom l'uomo che vent'anni prima ha tradito il suo clan e distrutto il suo occhio. La tensione che si viene a creare attorno la famiglia Stall passa in poco tempo dall'essere surreale all'essere concretamente terrorizzante. L'escalation di violenza è annunciata ma dirompente, fa breccia nello spettatore scuotendone schizofrenicamente le viscere e ci mostra finalmente, perchè è un momento che il ritmo del film è capace di farti attendere sin dalle prime sequenze, la fragilità individuale e individualista dei protagonisti; le reazioni alla realtà effettiva che hanno soprattutto il figlio teenager Jack e la moglie Edie rendono efficacemente la disperazione che ti travolge quando vedi il mondo che hai costruito con fatica, dedizione e sentimento attorno a te, sgretolarsi in un attimo, distrutto da un illusione, distrutto da una bugia bianca, in buona fede, ma pur sempre bugia. Alla fine del film, come se Tom realizzasse di essere lui il colpevole, lui la persona cattiva (un dubbio che lo attanaglia psicologicamente da una vita) decide di affrontare una specie di resa dei conti, tornando a Philadelphia. L'ultima scena del film è emblematica, è quella che sembra ricomporre l'equilibrio andato distrutto. La famiglia di Tom, che lo aveva accettato pur senza comprenderlo, che lo aveva difeso pur senza convinzione, lo riaccoglie nel silenzio del gesto di una bambina che, vedendo il proprio padre in un imbarazzante difficoltà, in piedi di fianco al tavolo dove il resto della famiglia sta mangiando, si alza, prende un piatto e lo sistema nel posto dove si era abituata a vedere il padre, prima che una storia di violenza mettesse a dura prova la sua serenità esistenziale.




[caption id="attachment_849" align="alignleft" width="276"]Viggo Mortensen (Aragorn/Granpasso) vs Ed Harris, in una scena del film. Viggo Mortensen (Aragorn/Granpasso) vs Ed Harris, in una scena del film.[/caption]


La violenza, tema filo conduttore del film, è dipinta da Cronenberg come qualcosa di inevitabile ma che và a braccetto con la destabilità, con la patologia (il rapinatore che striscia come un animale in calore la sua zampa sul seno dell'ostaggio) ; la violenza in Cronenberg, se pur ben radicata nei meandri dei rapporti umani, è qualcosa che nasce dalla malattia e non dalla salute, dallo straordinario più che dall'ordinario. Ma non c'è solo questo. Cronenberg è un maestro nel provocare disgusto, nel trasmettere un senso forte di disagio allo spettatore attraverso i dettagli, le inquadrature taglienti e le emozioni sui volti dei protagonisti (buona prova di praticamente tutto il cast) in questo film il disagio diventa necessario a comprendere la diffusione inarrestabile di un virus come la violenza. Insomma, non vuole sottolineare quanto la violenza sia cattiva, ingiusta o animalesca ma ci vuole far capire come sia intrinseca all'esistenza, quasi come fosse la strada per far evolvere l'individuo.




[caption id="attachment_850" align="alignright" width="293"]Sesso sulle scale Sesso sulle scale[/caption]

Il sesso sulle scale liberatorio e selvaggio tra Tom e Edie, più simile ad una lotta, l'esplosività emotiva della rissa con cui Jack si ribella ad un bullo a scuola (gli fracassa la testa per terra) o l'aggressività verbale della moglie Edie nei confonti delle accuse dello sceriffo amico di famiglia sono alcune delle testimonianze con le quali il regista vuole renderci chiara la sua concezione di violenza esistenzialista, un processo attraverso il quale il protagonista scopre sè stesso affrontando ciò che non ha mai avuto il coraggio di affrontare. Il momento del sangue, infatti, il momento della violenza tradizionale, non è mai esasperato o coreografato da effetti barocchi; è la violenza nuda e cruda, realista, istantanea, violenta sul serio. Un film sicuramente forte, sicuramente moderno (il fatto che non traspare mai dove il film voglia andare a parare né è la prova, sarà un film drammatico o un thriller psicologico?...) e dal quale i giovani cineasti hanno qualcosa da imparare, dalla sequenza iniziale (degna di maestri del genere come Lynch o Billy Wilder) a quella finale.

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