Post più popolari

giovedì 30 ottobre 2014

True Detective: il telefilm che porta l'oscar in tv! (9/10)

In maniera alquanto inusuale siamo qui oggi ad occuparci del commento ad una serie tv. Un telefilm nato quest'anno da un soggetto originale e che è riuscito prepotentemente a far parlare di sè riscuotendo all'unanimità di critica e pubblico positivi consensi. True Detective però, pur essendo prodotto da HBO, non è uno di quei telefilm che mira a catturare più pubblico possibile, ricreando imgressuspence, trame complicate, criminali imprevedibili o altri trucchetti pop, ma è un telefilm dall'elevata caratura artistica, sicuramente anticonvenzionale e innovativo, un telefilm che sembra non curarsi dell'audience, che sembra appunto respingere quasi ogni pulsione di commercialità a favore di un'atmosfera più elaborata e cinematografica, a favore di un introspezione quasi ossessiva dei personaggi.


Eppure non stiamo parlando di televisione indipendente ma di una serie dell'HBO, casa di produzione che a quanto pare ha avuto il coraggio o, perché no, il bisogno di rivoluzionare il trand dei propri lavori. In True Detective, infatti, si segue una linea che ha già trovato fortuna nelle nuove produzioni americane, soprattutto in lungometraggi; la predisposizione a relegare il ruolo della trama a quello di cornice, di sfondo, di semplice motivo per muoversi dei personaggi. Personaggi che diventano il vero centro del lavoro, lavoro dedicato appunto alla viscerale analisi dei protagonisti e della loro condizione. In fondo a True Detective è questa l'impressione dello spettatore; di aver capito a fondo la condizione del personaggio, di averla fatta propria e di poterla addirittura provare sulla propria pelle. Naturalmente per far si che una cosa del genere funzioni e per far si che True Detective diventi la serie via cavo più seguita nella storia dell'HBO (11,9 mln di media di telespettatori a puntata) c'è bisogno di immensa qualità.


imagesL'idea è stata di Nic Pizzolato, visionario romanziere di origini italiane che con la produzione e la sceneggiatua di True Detective si è lanciato nella sua prima esperienza televisiva. Per fare chiarezza e a supporto della nostra analisi Pizzolato ha definito la sua serie un'antologia visiva.


La trama è semplice ma non lineare, nel tempo presente vediamo che l'FBI indaga su un caso che Rust e Martin avevano chiuso 20 anni prima; è già qui, tra gli interrogatori a Rust e Martin e le immagini della loro vita nel '95 che scorrono, che impariamo a conoscere Rust e Martin, due detective complementari ma senza amore reciproco, che si sono trovati a lavorare insieme praticamente per caso. A Martin, il capo dei due, Rust non piace, ma lo rispetta per la dedizione con cui si occupa del lavoro e perchè in fondo ha capito che Rust è un brav'uomo. Nell 2002 litigano, le loro carriere si dividono e Rust sparisce nel nulla per dieci anni fino a quando l'FBI non li convoca per parlare di quel vecchio caso chiuso nel '95, l'assassino infatti sembra ancora in libertà. Rust naturalmente insiste per tornare ad indagare e riesce a convincere Martin a darli una mano. In dieci anni di cose ne cambiano tante, ma Rust e Martin sono gli stessi, tra amore e odio, tra complementarità e identità, la serie si avvia verso un'epifaniaca conclusione.


La regia è stata affidata da Pizzolato al giovane Cary Joji Fukunaga, classe 1977 di padre giapponese e madre svedese, anche lui a una delle prime esperienzein televisione. Fukunaga, assieme al cast coinvolto, sembra essere la provvidenza per Pizzolato, la cui idea era sicuramente attraente ma di difficile realizzazione commerciale. L'impostazione cinematografica che dà la regia di Fukunaga è perfetta per l'eseltazione dell'individualismo che voleva Pizzolato; le ambientazioni da noir di campagna, il ritmo lento e introspettivo, le inquadrature minimaliste degli attori e quelle raffinate della scenografia rendono True Detective un telefilm d'autore che a tratti, con sospensione esistenzialista, è capace di fare breccia nella testa di chi guarda.slideshow2.2f1099be3fa9df7dce4d9d978da5c3c2-1024x576


Per fare questo passo, forse il più complicato, e cioè per fare in modo che il processo empatico funzioni, è necessario un ultimo tassello di grandissima qualità: un cast all'altezza.


Così ecco apparire due che di essere all'altezza ne hanno spesso sentito parlare, due attori sminuiti e sottovalutati per la maggior parte della propria carriera fino ad oggi e che sono quindi perennemente sotto esame. Woody Harrelson (Martin) è il tradizionale agente appassionato di donne e bevute, combattuto in continuazione tra la stabilità familiare e l'accondiscendenza alle proprie debolezze. Diventa la spalla ideale per Rust, che odia per il modo di concepire il mondo ma dal quale è stregato per la sua intelligenza. I sentimenti in continuo conflitto tra loro fanno di Martin un uomo coscientemente piccolo, coscientemente debole, coscientemente frustrato dal fatto di voler fare la scelta giusta ma di non riuscirci mai. Spreca le occasioni che la vita e sua moglie gli danno e non troverà mai una soluzione per la propria condizione, ma solo il modo di alleggerirla.


Dall'altro lato Rust, tornato da ben 4 anni da infiltrato per la narcotici, ha perso sua figlia in un incidente e il matrimonio non ha retto, è perennemente a pezzi dal punto di vista esistenziale eppure è perennemente attivo, operativo, come se avesse un profetico disegno da portare a termine. Rust è particolare, è più intelligente della media ed è dannatamente bravo nel suo lavoro (la percentuale dei suoi interrogatori riusciti supera il 90%), tutti elementi che costituiscono un uomo di successo, a cui basterebbe poco altro per essere felice. Ma Rust non ci sta, non si lascia risucchiare dalla speranza della felicità, si rassegna piuttosto a concepire il mondo cosi come il mondo gli si è presentato; Rust si rifugia dal mondo nel nichilismo e nella misantropia, il che lo rende calcolatore e isolato (un cocktail che spesso crea mostri irreprensibili). Eppure Rust non è un mostro, è un brav'uomo; e anche se è consapevole di non poter mai più risolvere la propria condizione, sa benissimo come alleggerirla.


ustv_true-detective-finale-6Sembra infine questo il messaggio che ci lascia la prima stagione della serie. C'è l'uomo, animale piccolo e fragile, a cui è già stato rivelato lo scopo: la felicità. Ma ciò è in costante lotta con la sua esistenza, il mondo, che sembra messo lì apposta per appesantire la condizione dell'uomo e allontanarlo come una mano invisibile dal suo scopo. Se c'è una cosa che impariamo dal rapporto tra Rust e Martin è proprio che questa mano invisibile, in un modo o nell'altro, opera sulla tua condizione a prescindere dalla forza di volontà (Rust ne aveva molta e Martin molto poca) e l'unica cosa che l'uomo può fare è riconoscerla e tentare di alleggerire la propria esistenza.

Nessun commento:

Posta un commento